Pubblico : zero.
Giancarlo Varagnolo
< A >
È sempre piacevole incontrare Vic e scambiare quattro chiacchiere con lui; la conversazione non è mai banale e il suo modo di affrontare gli argomenti è essenzialmente, come dire, trasversale. Ultimamente, per esempio, in una discussione sulla "verità" ha affermato che "non è democratica" spostando il dibattito dal filosofico al sociologico e focalizzando la questione in un contesto storico che toccava l'agire banale quotidiano. Altre volte pone, più a se stesso che ad altri, quesiti che hanno del paradossale come, ad esempio, se sia più libero, ovvero creativo, giocare a ping-pong senza la pallina o con la pallina ma senza le racchette.
Così non mi sorprese più di tanto la sua domanda: "Se una rappresentazione teatrale, progettata per non aver pubblico, viene filmata e quindi poi visionata da chi-si-voglia, perde la sua prerogativa di essere per un non (voluto) pubblico (di spettatori)?". Ovviamente rimasi a bocca aperta a cogitare, o, meglio, ad assimilare il senso dell'enunciato. Che non era teorico, nel senso che Vic stava pensando di produrre uno spettacolo in un teatro senza darlo in pasto al pubblico, come si suol dire in modo malevolo. Aveva già previsto che sarebbe stato in tre atti, naturalmente (avverbio suo) con un solo protagonista per non aver nemmeno l'ombra di un qualsiasi pubblico potenziale negli eventuali altri attori; di aiutanti al momento della rappresentazione: neanche a parlarne, si sarebbe tutto (luci? musiche?) meccanicizzato. Cose che venni a conoscenza poi, come pure il perché, il per come, in che modo etc., che egli m'esplicò dettagliatamente anche perché contava su di me per la ripresa filmica della sua opera per nessuno.
Quel giorno però si trattava unicamente di trovare una risposta al problema, che riformulò nei termini: "La riproduzione meccanica è compatibile con la volontà di un'opera finalizzata a un non-pubblico?". Ad una domanda del genere, la prima e forse unica cosa da fare, se si è in un bar, è di chiamare il cameriere e ordinare qualcosa da bere - non necessariamente alcolico.
La risposta era molto semplice, benché necessitasse di una postilla. Chiaro che non fui io a darla. Vic, abituato com'è a seguire la sua logica, a porsi domande e a darsi risposte nella solitudine, ovvero a far ragionamenti che poi riassume in domande da porre ad altri, come me in questo caso. Non che la mia risposta o di chiunque altro sarebbe stata inutile e inascoltata, no, perché Vic è inconsciamente, credo, un fautore della pratica che nell'esternare le idee, nel dirle, si ha la prima verifica della loro validità o concretezza, ovvero logica; dimodoché le mie interiezioni furono sufficienti a veicolare le sue esplicazioni. Dunque ...
Intenzione, realizzazione e ricezione: l'idea messa in pratica, materializzata, non sempre soddisfa l'esternazione del progettato-pensato, e la concretizzazione del messaggio contenuto nel pensiero iniziale o idea non sempre viene decodificato per una comprensione o approssimazione del contenuto che era nelle aspettative del mittente.
Chiaro! In altre parole, sempre di Vic - molto didattico o rettorico o PR (public relations man)- dal dire al fare ed essere capito c'è un bel percorso di salto-agli-ostacoli; e, in ogni caso, i punti di vista sono tanti quanti i ricettori del messaggio. Ed aggiunse: non tanto per il loro Q.I. (intelligenza) ma per il loro stato emozionale nel momento di traduzione del messaggio - messaggio nell'accezione di tutto-ciò-che-ha-contenuto-comunicativo - privilegiando, di solito, gli attributi connotativi.
Ci avete capito poco, eh? Io non ci capivo nulla anche perché è così facile perdersi quando le parole sono parlate e un bicchiere tira l'altro e si aspetta la spiegazione finale, definitiva, chiarificatrice. Adesso vi traduco tutto nel mio lessico e ve lo sintetizzo in un esempio - che Vic non approverebbe - che viene dal testo di una canzone di un gruppo musicale inglese che ebbe un certo successo nel secolo scorso, nel quale il cantante prega (please) la sua nuova ragazza (girl-friend) di non vestirsi di rosso perché questo colore era quello preferito dalla sua ex (my babie) ed oggi (tonight) il rosso lo rende triste (sad). Ora: 1- il rosso è tutto meno che un colore triste, 2- immaginate una ragazza con quei vestitini senza maniche, scollati e con la gonna ampia che arriva esattamente al ginocchio e 3- l'intenzione della ragazza nell'indossare un abito rosso (cuore, amore, fuoco-passione); sembrerebbe che non ci potesse essere fraintendimento nel messaggio, e invece "yes it is, oh yes it is, ye-eh!" (che è il titolo del brano e il verso conclusivo d'ogni strofa, che divenne per una stagione il tormentone modulato di risposta positiva con i miei amici), lui essendo ancora afflitto dalle pene dell'abbandono vede il tutto attraverso la sua intima infelicità.
Bene; adesso che abbiamo chiarito il concetto dell'intendere fischi per fiaschi, facciamo un passo avanti per rispondere alla domanda iniziale (naturale che la riscrivo perché simpateticamente come io la dimenticai, anche voi ...) "La copia di un'opera artistica tradisce la sua destinazione progettuale?", nel caso specifico: se allestisco uno spettacolo perché nessuno vi assista, la riproduzione cinematografica vanifica la premessa (nessun pubblico) ? La risposta è no.
L'ho scritto sùbito e chiaro perché conosco i miei polli - è un modo di dire, senza offesa alcuna. Nell'impazienza di sapere come va a finire o nella frenesia di conoscere chi è il colpevole, non è il primo lettore che va diretto alla fine del libro e poi, se gli garba, legge i capitoli saltati. Adesso che siete rilassati, sapendo, vediamo di seguire il ragionamento. Di Vic.
Abbiamo accertato che tutto è comunicazione, sta a noi percepire il messaggio, il significato. E chi vuol inviare un'informazione deve scegliere, non sempre consciamente, un modo, un mezzo per veicolarla, per fornirla al destinatario. La forma più semplice e completa è la parola; se vi si aggiunge l'immagine il contenuto del messaggio probabilmente è più esplicito, probabilmente, poiché, come abbiamo visto con il "vestito rosso", vi può essere rumore, discordanza, contro-indicazioni cioè non sempre l'aggiunta visuale, sonora o parolaia-prolissa chiarifica, il più delle volte intorbidisce (per sovrabbondanza) il messaggio. Quindi, e arrivo al punto, è importantissimo il modo in cui la comunicazione verrà trasmessa, il mezzo che la renderà pubblica, che la comunicherà. In una massima, che è tanto abusata da trovarsi nell'involucro di cioccolatini o nel rivestimento di cubetti di gomma-da-masticare, è sintetizzato il concetto che "il mezzo è il messaggio". Semplice, no?
No, non lo fu per me la prima volta che Vic pronunciò la proposizione poiché equivocai sul significato “il mezzo" e spontaneamente pensai che se qualcuno mi dà una bastonata, è superlogico e chiaro il suo messaggio. Per cui è migliore la variante "il medium è il messaggio" dove, pur permanendo l'ambiguità d'un intervento esoterico, passando al plurale (si noti che il lessema è latino) media il significato, se non il senso, è meglio indirizzato. Tutti sanno che cosa sono i media (correttamente ed estensivamente la lacuzione è "mass media"): giornali, TV, radio, cartelloni pubblicitari, ... Il perché il mezzo sia messaggio è presto detto: esso condiziona le aspettative e l'attenzione del ricevente (e, a monte, ovviamente, quelle del mittente cosciente); un messaggio nella segreteria telefonica non ha l'impatto (il termine non è corretto, ma penso renda il senso) di una lettera cartacea.
Conseguenza diretta (corollario?) di questo è che il messaggio muta con il variare del medium; non sono assolutamente intercambiabili. Consapevole di ciò, Vic era certo di non venir meno al suo voler dare una pièce teatrale a un pubblico inesistente, a una platea vuota o, meglio, al vuoto di una platea. Lo spettacolo era per nessuno.
Naturale che abbiate pensato che i film (visto che filmato sarebbe stato lo spettacolo di Vic) non hanno spettatori al momento di essere inscenati, girati; gli attori non hanno un pubblico (applaudente), ma , se vogliamo, l'unico esemplare di spettatore è il regista. Il film è prodotto - la recitazione è - in vista di un pubblico (che si spera abbondante o "numeroso"), così come i documentari, e molti programmi televisivi. Qui invece, cioè nelle intenzioni di Vic, su tratta di registrare, filmare, un qualcosa che non presuppone un audience.
Dove stava, però, la differenza dal punto di vista pratico? Nel mezzo, nel medium; nel gestire un'opera di teatro in teatro teatralmente (non vuol essere uno scioglilingua, ma una intensificazione nel senso del medium) senza target di riferimento (gli spettatori) e quindi lasciare, diciamo così, testimonianza (lessema mio, a Vic interessa fare e non storicizzarsi - molte delle sue performances gli sono ricordate da amici e conoscenti, con meraviglia di lui che aveva dimenticato) dell'azione scenica. Vic voleva fare teatro, non cinema.
Il teatro è un'esperienza intensa che coinvolge più del cinema sia perché la percezione è focalizzata da voi (e non dalla cinepresa) sia perché nessuna tela vi separa dagli attori in scena; l'attenzione è concentrata al massimo nel dialogo e nei gesti (di solito parchi); non ci sono sbalzi di luogo, tempo, ambiente, ma è tutto lì, ora. Sto parlando di differenze, non di pregi e difetti dell'uno o dell'altro medium ovvero "spettacolo". Se proprio devo scrivere una nota critica è sull'uso smodato che attualmente in teatro si fa di mezzi "filmici" (cioè televisivi, con proiezioni e intrusioni telematiche varie) snaturando la "scena"; per la produzione filmica ... direi che ... diventa barbosa quando fa teatro, cioè se la narrazione è da palcoscenico, "teatrale". (Fine digressione.)
Dunque era deciso, per deduzione, che si poteva fare e non sarebbe stata una traduzione, nel senso di passaggio da un idioma , idest linguaggio, all'altro (ricordate? "il mezzo è il messaggio"), ma la stampa anastatica dell'originale (similitudine non mia). Teoricamente restava un ultimo punto da vagliare: il messaggio sarebbe passato? ovvero che cosa avrebbe capito chi avesse visto la registrazione della commedia (!) o tragedia (!) o farsa (!) ?
Veniva ad essere un'opera, una comunicazione (ricordate: tutto è c...) altra da sè; in quanto paragonabile all'arte pittorica astratta necessitava un'indicazione di percorso (tipo caccia-al-tesoro, esempio mio) che portasse lo spettatore a percepire referenzialmente il significato. Quello che comunichiamo è ciò che l'altro capisce. Che cosa deve capire? - chiesi a Vic.
Nulla. (Risposta tipica di Vic, ma non vera; chiamiamola variante sintagorematica di riflessione).
Non si può non comunicare - l'abbiamo già scritto -, per cui o faccio una dichiarazione, cioè rendo manifesto un mio enunciato, o lascio agli altri (sperando siano "creativi", per moltiplicare-espandere le significazioni) a vedere-capire-traslitterare da soli. Quindi un'indicazione è preferibile, direi necessaria.
Avete presente le introduzioni dei critici d'arte nei pieghevoli delle mostre di quadri? L'uso che ne fa il visitatore è di verificarne le affermazioni nelle opere esposte, talvolta discordandone, ma più soddisfatti nel constatarne, personalmente, la veridicità del messaggio, appunto, dell'artista; e quanto più è informale il dipinto, tanto più se ne vuol sapere il significato, tanto più si vuol capire - del tutto simile ai prestampati forniti ai giovani visitatori nei musei didatticamente preparati. Potevamo porre delle didascalie nel filmato ... Apriti cielo! Vic per poco non mi mandava a quel paese per questa proposta "bassamente divulgativa": spiegare che cosa a chi quando non c'era nulla da spiegare né alcuno a cui indirizzarla!
Il titolo - "Pubblico: (due punti) zero." - poteva e doveva bastare (come indicazione).
Posi una riserva sui "due punti" (questa volta ero io a tirarlo al cimento) che introducendo lo "zero" danno l'idea di una formula matematica (da applicare).
Mi rispose d'averci pensato, ma era l'unica soluzione grammaticalmente, come punteggiatura, corretta essendo la scrittura sinottica della risposta alla domanda implicita: "Quanto pubblico? Zero!". Il segno grafico di uguale (=) avrebbe suggerito un'operazione aritmetica di calcolo sul numero degli spettatori. Togliendo i due punti si correva il rischio di far sembrare "zero" un aggettivo qualificativo di segno negativo nei confronti del pubblico come entità pensante. Il banale "Senza pubblico" sarebbe stato quasi certamente decodificato come "Privatamente". Ogni altro titolo avrebbe rimandato ad una trama (a un testo) e comunque perso quell'efficacia sincretica, lapidaria (aggettivo mio?) e semiotica (aggettivo suo) di quello scelto da lui. Un mio suggerimento: "Pubblico? No, grazie.", diede il via a un bel po' di battute ridanciane ("Nessuno! Meglio così.", "Spettatori, aspettate fuori.", "Questa sera si recita ... per nessuno.", "Meglio soli che male applauditi.", "Il pubblico può attendere.", "Il vuoto delle grandi platee.", "Nessuno è invitato.", "Non vi voglio tra i piedi!", "La vallata delle sedie vuote.", ...).
Con "Io mi recito." arrivò il punto e a capo. Vic mi guardò come se avessi posto sul tavolo il coniglietto bianco dei prestigiatori; gli occhi gli sorridevano.
"Ottimo assunto" - disse. (Non proprio così, questa è una riduzione mia di tutta la sua manfrina fática nel mostrare che ci pensava e apprezzava. Vic è un gran chiacchierone, ma la sua torrenzialità oratoria è come un fiume africano, o una fiumara del meridione italiano: c'è una stagione di piena e poi un lungo periodo di silenzio, di secca. Ma proprio come il letto di questi fiumi, egli fa scorrere l'acqua quando c'è, altrimenti, se non ha nulla da comunicare agli altri, tace - non si tratta di umoralità, bensì d'aver pensieri da compartire, far defluire.)
Non ci aveva pensato, non aveva visto questa possibilità, non l'aveva messa in conto - lo ammise pensosamente, e mi chiese di regalargli (sic!) una delle mie sigarette. Si isolò nel fumo, come un mago druido sopra il calderone della pozione magica con il mestolo (piccolino) in mano. Vic fuma lento, piccole inspirazioni da fumatore di sigaro, fumo soffiato dal naso, calmo assorto, in quel momento più che mai.
La question era diventato un koan zen, un paradosso che si doveva sbrogliare (per quel che potevo capire io, una soluzione o una risposta non era sul mio brumoso orizzonte mentale), infatti sia che io reciti me stesso o per me o a me medesimo si viene ad avere il pubblico composto da un mero singolo spettatore, ma sempre pubblico, cioè osservatore esterno, è. Esterno in quanto proiezione dell'io recitante che ha coscienza di sè, che si vede, chiarì Vic al mio alzar di ciglia su "esterno". Non necessita uno specchio per potersi guardare mentre si agisce, ci si muove, si gesticola, si parla; nel caso poi di una recitazione il tutto era, appunto, (più) plateale. Quindi se io mi recito sono già altro da me, sono un copione (teatrale) del mio essere, recito, cioè ripropongo, un personaggio che è il mio io, e per essere maschera della mia maschera (persona) devo essere altro da me, vedermi da fuori. (Scusate, sto ripetendo a pappagallo il discorso di Vic, vediamo di capire insieme quello che credo d'aver capito - se per voi il discorso è già chiaro: saltate tutta codesta parentesi. Orbene, se Tizio conosce Caio con un'osservatina più attenta può agevolmente descriverne le caratteristiche e, volendo, farne una parodia; se Sempronio vuol vedere come balla, come gioca a tennis, sentire come canta, deve vedersi, sentirsi previa registrazione web-cam di se stesso, e quando visionerà il filmato, il nostro Semp vedrà quello-là che è lui medesimo. Per piccoli atteggiamenti Sempronio può benissimo osservarli in diretta, come si dice, cioè mentre è lui lì che li compie al momento, come può essere il modo di allacciarsi le scarpe, l'abitudine a tavola di passare il tovagliolo sulle labbra prima di bere, la postura che assume nell'immergersi nella lettura di un libro - io usualmente mi siedo su una poltrona e accavallo le gambe su un bracciolo; lo so che a voi non interessa più di tanto, ma è per fornirvi un esempio personale di come la gente osserva se stessa: vi sarete ben qualche volta guardati allo specchio grande dell'armadio ed esclamato: "Che schianto che sono!". Fine parentesi. È stato esaustivo l'approfondimento? Sì [ ] No [ ] ?[ ] )
Vic ammise che non era possibile eliminare completamente la coscienza di se stessi, benché ci si potesse andare molto vicino a questo obnubilamento od ottenebrazione del sè cosciente (i vocaboli sono quelli lì - logico che non sto parlando come mangio, sto ripetendo il lessico d'altri, di Vic in questo caso). Non è una cosa molto difficile, dice Vic, poiché si tratta meramente di concentrarsi su quello che si fa ma senza pensarci. Come sarebbe? Facile (a capire dopo che mi fece l'esempio che segue:) come la guida dell'automobile dopo alcuni mesi di pratica, cioè quando il movimento dei piedi e delle mani sembrano agire autonomamente senza il cosciente intervento direttivo della mente. La pecca, il neo, la non-compiutezza sta nella ineluttabile, necessaria, ineliminabile assunzione o presa-di-coscienza che si sta guidando un'automobile (nel caso del classico zen, che si sta tirando con l'arco e non con la cerbottana).
Vic fece anche un altro esempio di cilecca o fiasco, molto più tecnico che reale, quello della ricerca del silenzio assoluto, che non esiste; cioè, no, in quanto probabilmente c'è da qualche parte, ma non udibile dall'uomo. (Molti sbotteranno: "Ma come? Ti turi le orecchie e apposto!", e qualcuno esclamerà: "E i sordi? Non sentono nulla.", ribaltando l'udire nel suo opposto, tanto per confermare quello che abbiamo scritto precedentemente sulla comunicazione: ognuno decodifica, capisce, adegua il messaggio alle sue ubbie - dovrebbero essere valvole del cervello dei robot di 1ª generazione. Non si tratta di non udire, ma di ascoltare il silenzio, "il suono del silenzio" come diceva una canzone hippie; di avere le orecchie, l'udito, in perfetto stato e sì udire nulla. Anche i sordi più sordi odono ciò che nessun essere umano può permettersi di zittire: il proprio cuore. Ok, lo so che detta così richiama molto i pensierini per la festa della mamma - e forse qualcuno bonariamente mi avrà mandato da ella -, comunque sono i battiti - sistole, diastole - del cuore nel suo pompaggio per la circolazione del sangue che noi sempre - sordi compresi - udiamo.) Perché Vic citò 4’33” (Four and Thirthree) ? Per aggiungere altre argomentazioni deduttive alla sua proposta di performance, ed anche, in questo caso, per ribaltare, se possibile, il punto di vista , la prospettiva classica in quanto: è il silenzio una assenza di rumore, o è il rumore il necessario suono manifestante del dispiegarsi della vita e della trasformazione ed il silenzio, a fortiori, ne è la negazione?
Ci siamo un po' tutti persi, ma non Vic che aveva in mano il bandolo della matassa e sapeva dove voleva arrivare: recitare senza pubblico. Senza tener-conto-del-pubblico. Quindi si trattava di tener presente il vuoto e il silenzio della sala del teatro, della mancanza di aspettative e legami temporali, però di recitare senza che nemmeno l'attore protagonista si percepisse come spettatore.
La soluzione sarebbe stata semplice , quasi banale, se non ci fosse stata l'ipoteca del "recitare". L'attore (nell'accezione primitiva) poteva proporre un happening estemporaneo senza pensarci e pensarsi molto ed era fatta (il messaggio ... dov'era? non si comunicava nessuna cosa perché non c'erano ricevitori, utenti, fruitori quindi che te ne frega del messaggio! o no?). Ma si trattava di recitare, cioè di proporre un testo e/o un'azione che s'era scritto, studiato, ripetutamente provato; ed era per me l'idea, la pratica delle prove che non andava. Però ero legato alla negatività, non al totalmente positivo-diverso, mi chiarì Vic, poiché mi sottolineò di nuovo, che non si doveva pensare né al pubblico né al punto-di-vista-del-pubblico, né a che cosa sarebbe stato meglio per il pubblico, etc.etc., cioè di eliminare tutte quelle preoccupazioni - professionalmente corrette - della messa in scena di un'opera teatrale per un pubblico. Qui si trattava di ... giocare come scimmie su un albero. L'immagine è di Vic; ed ebbi il satori.
< B >
Ci furono altri incontri, parecchi; la parte teorica, concettuale, era quella che interessava, giustamente, a Vic; nella realizzazione pratica andava diritto e veloce come un missile terra-aria. Nelle discussioni, invece, si divagava alla grande, il più delle volte dibattendo argomenti che poco o nulla avevano a vedere con il progetto. È questa la parte essenziale, creativa e soddisfacente del lavoro ideativo, l'attuazione materiale non è che la prova tangibile, quasi una reificazione a futura-memoria. Una volta esperita e attuata l'idea, la cosiddetta opera-d'arte perde la sua attrazione, il suo valore se vogliamo, per il progettista, il creatore e/o creativo; l'esempio calzante è il paragone con una vivanda: la scelta e la raccolta degli ingredienti, la sua preparazione e infine - scopo e fine dichiarato - la sua degustazione e nullificazione; in questa ottica i musei sono delle enormi celle frigorifere.
Il problema teorico iniziale da risolvere era quello di far sì che la web-camera o cinepresa non costituisse un pubblico, ossia non fosse il sostituto meccanico, inanimato, d'uno spettatore umano. Questo non tanto perché si conservasse la purezza della tesi di partenza di pubblico : zero (dove pubblico, sia chiaro, è inteso come insieme di persone che assiste, vede, partecipa - a suo modo - ad un evento proposto da altri e che, da non dimenticare, è la meta, il target, della comunicazione), quanto per non avere focalizzazioni, ovvero punti di attrazione che inevitabilmente si sarebbero creati - per quanto chiusi a doppia mandata nell'anticamera del cervello.
Poiché avevo avuto l'illuminazione (Eureka!), la soluzione l'avevo già.
[Parentesi: "chi si loda si sbroda", lo so, per cui mi limiterò a chiarire che è piuttosto seccante, se non deprimente, essere considerato la spalla (come a teatro) o il semplice coadiuvante, se non lo scudiero, magari alla Sacho Panza che non è poi, il Sancho, così male per il suo realismo popolare. Non necessariamente la differenza crea subalternità, né tanto meno possiamo fare comparazioni con un'unica scala di valori. Se un chimico e un pescatore discutono di calcio posso determinare chi è il più competente, mentre nei loro campi è lapalissiano che "non c'è termine di paragone". Ritornando a noi, intendo io e Vic, è chiaro che il pensatore a ruota libera è lui, ma l'effervescenza della sua mente è, come dire, circoscritta o monodiretta o ridondante. Ritornando al pescatore e al chimico: quest'ultimo non avrà molto da dire sul suo vissuto di chimico e quindi parlerà di (molte) altre cose, il suo amico pescatore, invece, ogni giorno avrà qualcosa da raccontare attinente alla pesca (che non è solo il pescato suo o d'altri, ma il tempo metereologico, le variazioni di mercato, nuove ricette e buone mangiate di pesce, etc.) per cui tutti riconosceranno in lui un pescatore, mentre l'amico chimico lo dovrà specificatamente dichiarare. Per Vic è uguale: tutti si accorgono che è un parlatore dalle idee strambe, quasi un chiacchierone nel senso che più che conversare, espone le cose e non ama discuterne. Io invece sono un buon ascoltatore: me ne sto zitto ad ascoltare gli altri e ciò che mi spinge ad intervenire nei discorsi altrui è la richiesta di chiarimenti, spiegazioni o riaffermazioni ("Sul serio?!"). Chiaro che anch'io ho la mia abilità speculativa, le mie idee, i miei campi di azione, ma senza alcuna specificità monolitica; nel mio fare - con un esempio molto bello e abbastanza tattile se state leggendo d'estate (e, vabbe', lo so che non è pertinente né interessante, ma l'immagine me l'ha fornita la mia ragazza, girl-friend, che il rosso ce l'ha nei capelli!), dunque Vic è paragonabile ad una pompa, al tubo di gomma più o meno lungo che serve ad annaffiare in giardino o a lavare l'automobile; il getto dell'acqua è diritto, direzionato, unico e per lo più forte. Io invece sono un acquazzone leggero (una pisciatina di strega, come diceva mio nonno Ermen) che bagna un po' tutto, indifferentemente e blandamente. Nel caso dell'operazione "zero pubblico", logico che era Vic a tirare e io a seguire, però la realizzazione della registrazione filmata è tutta roba - idee, progettazione, installazione, "aggeggi tecnici", mixaggio, produzione e distribuzione, yes - mia. Lui proprio non ci ha messo nulla di nulla perché non voleva e non doveva sapere come sarebbe avvenuta la ripresa televisiva.]
Ho chiuso la parentesi e forse questa affermazione ci andava dentro: Vic non ci capisce molto di tecnologia digitale; non è un pettegolezzo: è lui, talvolta con indifferenza altre volte con vanto, che lo dichiara. (Tutta una scusa - e questa è un'indiscrezione o gossip - perché non sa nemmeno scrivere con la macchina-da-scrivere meccanica del secolo XX.)
I dettagli pratici e teorici su come doveva essere la scena che, si noti, comprendeva anche la platea, cioè lo spazio visto dal palcoscenico, li discutemmo all'interno del teatro. La parte pratica riguardava la messa in scena e l'azione, della quale io prendevo appunti per il mio lavoro tecnico video (wow!) e che discutevo solo in minima parte con Vic. La ribalta era vuota, il sipario si supponeva già tirato via, anche se a me all'inizio non andava bene perché è con l'apertura del sipario che inizia lo spettacolo e un minimo di scenografia dà l'idea che il palco sia pronto (allestito) per "qualcosa". Si giunse ad un compromesso, sia pratico che teorico: avrei azionato l'interruttore centrale della corrente elettrica illuminando contemporaneamente palco e platea, senza distinzione di luminosità, e il meccanismo elettrico che muoveva il sipario, e lo spettacolo sarebbe iniziato. In scena: una sedia, un tavolinetto, una poltrona, sullo sfondo una grande porta-finestra dipinta e una scala vicino, il tutto in colore quasi bianco. Bianco ... Le poltroncine di platea erano di vellutino rosso scuro: un disastro cromatico, per Vic, che le volle coprire, una per una, con un telo bianco - come una parsimoniosa padrona di casa (ironia di un'amica, non girl-friend, al sentirmelo raccontare). Il tutto era abbacinante.
Fortunatamente le web-cam sono autoregolantesi: va tutto in automatico, quindi non c'era da preoccuparsi; una bella gatta da pelare (l'espressione è questa, benché non mi piaccia) furono le ombre, che Vic non voleva; che poi si trattava di una sola ombra: quella del suo corpo in movimento.
Perché niente ombra? "Ombra: zero" (parodia mia) perché ... Non ci siete arrivati? L'ombra è il doppio dell'oggetto, ne è la sua proiezione scura, ne è l'immagine proiettata piatta del suo contorno. Venendo ad avere una (o due o tre - dipende da quanti fari proiettano la luce sull'oggetto, qui: l'attore) ombra sul palcoscenico, il personaggio si sdoppiava (o triplicava, ...); una presenza silente ma talvolta gesticolante molto più incisivamente, grandemente, scenicamente del suo ... proprietario. Vic voleva essere assolutamente solo, non accettava nemmeno l'ombra di se stesso che vedeva come intrusione, qualcosa in più non solo des-necessario ma antitetico - si incappava in quel "Io mi recito" che s'era contestato e rifiutato. L'ombra era di disturbo. La eliminai.
Non è un compito difficile, è sufficiente posizionare i fari e dosare l'intensità delle fonti di luce in modo tale da non far ombra, vale a dire che non c'erano zone di non-luce dove un'ombra poteva proiettarsi, cioè l'oggetto, Vic, sarebbe stato inondato di luce a 360º sferici (non so se si dica così, la trigonometria non fu il mio forte; in pratica lui era il semiasse verticale della semisfera che aveva il centro dove poggiava i piedi e il nadir all'altezza delle luci della travata sopra il palcoscenico). Ovviamente, in opposizione alla moda istrionica, si sarebbe vestito di bianco (un sobrio abito estivo monopetto, ma senza cravatta).
Nemmeno gli oggetti di scena avevano ombra.
Restava il suono. E qui fu battaglia perché Vic asseriva che non era importante che s'udisse la sua recitazione orale visto che non doveva farsi capire da nessuno, ché non era destinata a nessuno. Io insistivo sul fatto che un video con i soli rumori accidentali (flebili, poveri e pochi) in un teatro vuoto, avrebbe veicolato un unico messaggio: senso di angoscia (con tutto quel bianco in luce poi ...); che non era quello che Vic voleva (avrebbe voluto l'assoluto misticheggiante - avverbio mio - del non messaggio, ma abbiamo visto che tutto è comunicazione), benché non mi fosse sufficientemente chiaro che cosa volesse al di là di togliersi lo sfizio della recitazione solipsista.
Sfizio perché non avrebbe portato a nulla, almeno come la vedo io, ma lasciamo ai critici di professione e agli intellettuali disorganici e con pensiero debole e, ovviamente, ai posteri la sentenza.
Per la musica (più o meno di non-sic!-atmosfera o leit-motiv) non c'era problema alcuno perché se ne poteva aggiungere poi tutta quella che si voleva (ah, beata tecnologia!), ma non è che si potesse fare il doppiaggio di lui recitante, anche perché doppiavo cosa se non c'era l'originale?
Chi va con l'orso, impara a ballare (con lo zoppo, a zoppicare e con Vic, ad usare la dialettica, meglio, i sofismi) così il torneo rettorico durò parecchi incontri più per il fatto che lui non volesse cedere che perché le argomentazioni non fossero ovvie, come, ormai ne siete edotti, il mezzo è il messaggio, per cui era inutile (leggi: beota) voler registrare su CD una poesia scritta sventolando la pagina contro il microfono, o filmare senza togliere il copri-obiettivo ( o far cuocere gli spaghetti senza acqua in pentola); il mezzo doveva essere usato in quanto tale e il cinema, il filmato, è sì immagine in movimento però con il suono, in special modo se quello che si va a riprendere è un avvenimento basato sull'oralità. La prova del 9, come si suol dire (non è che mi son preso un po' di sanchopanzaite? cito troppe sentenze popolane), è semplice: se registrate con la web-cam una canzone filmando la fonte sonora inerte (la radio, ad esempio), nel rivedere l'immagine, praticamente fissa e comunque incongrua con la voce e la musica, non ci fate (quasi) caso, ma se filmate una cantante senza la funzione sound ... forse ci riderete sopra, una volta sola però. Così convinsi Vic, dopo, sì dopo, aver fatto un filmatino (un "corto") in una delle sue prove (fui ammesso un paio di volte, per motivi tecnici, miei, da risolvere).
Ammise (troppa grazia, Santanto'!), dopo un po' di volte che l'aveva appuntato al bavero della giacca, che il microfono, grande come un bottone, proprio era facile da scordare, non-farci-più-caso.
E qui terminano i preparativi teorici. Poiché era un'azione scenica strutturata, mi fu facile fargli fare degli aggiustamenti nel suo deambulare in scena affinché non mi uscisse fuori campo delle telecamere, che però a lui motivai come ... come "per-me-è-meglio-se-...", punto.
Adesso lui aspettava me per il giorno della 1ª (sì, 1ª nel senso che non sarebbe stata l'unica, avrebbe dato una replica il giorno, pardon, la sera dopo, sempre per restare in quella, che io chiamo senza remore, "finzione" di una programmazione teatrale con pubblico). Aspettare è esagerato, diciamo che lasciava a me, con tutta calma, di richiamarlo al progetto mentre lui se ne dimenticava (rimuovere è un verbo che non conosce) e veleggiava per altre ineffabili isole enigmatiche (ad essere classici, cervellotiche ad essere popolareschi).
La mia frenesia e curiosità ora era esclusivamente tecnica: dato un problema concreto, troviamone la soluzione. Ma visto che la soluzione era semplice, anzi banalissima, volevo vederne il risultato: i filmati. Plurale: i filmati. No, non due, della 1ª e 2ª serata, no, ma i sedici. Sedici; una decina + sei unità = 16. Ovvero 8 x 2 = 16, in quanto le telecamere erano otto e le serate due.
Capito? Lo schema era questo: una sul fondo sala, una a metà platea (tanto non c'era nessuno né a toccarla né a impalarla, cioè a mettersi davanti all'obiettivo), una centrale sulla sponda della ribalta (la più difficile da mimetizzare-nascondere, fortuna che la tecnologia ... benedetta sia!), due al centro delle pareti laterali del palcoscenico, e due negli angoli di fondo per dare una visione diagonale e per non lasciare zone defilate, l'ottava fu un colpo di genio (modestamente): la fissai in alto sulla perpendicolare del centro del palcoscenico, si sarebbe visto per lo più la testa e le spalle ma se ne poteva fare un uso di qualche secondo per variare la scena al momento del montaggio. Tutte riprendevano contemporaneamente, ovviamente.
La registrazione della voce mi dava un po' di incertezza, comunque io sarei stato alla consolle e in regia lì a teatro e quindi potevo agire sull'impianto; l'uscita acustica e la registrazione sarebbe stata comunque su due piste distinte (two is better than one!) per sicurezza operativa.
Mentii a Vic, ma a fin di bene, e per l'arte (la maiuscola potete metterla a penna voi, non m'oppongo), dicendogli che avrei filmato solo la replica, così lui poteva essere rilassato nella 1ª e blablablà blablablà. Questo stratagemma, più che bugia, era comunque parte del gioco, nel senso che veramente e concretamente avrebbe agito pensando che non ci fosse nemmeno l'occhio della telecamera; sì, gli lasciai credere che ci fosse un'unica web-cam in un punto imprecisato del teatro. E il risultato fu ottimo: il mio e il suo; le due registrazioni sono pressoché identiche a parte gli inizi dove nella 1ª c'è, diciamo così, il riscaldamento del motore perché, lo crediate o no, non è facile sentirsi a proprio agio a recitare davanti a nessuno; provate ad andare in un luogo deserto e dire qualcosa ad alta voce: vi bloccate, fate uno sforzo, vi intimidite - garantito al limone! (Si usa ancora codesta espressione?)
Nella 2ª, nei primi secondi dell'inizio si nota, almeno io l'ho "visto", un riflesso di interrogazione: "Dov'è la video?", che penso d'aver intravvisto in altre sequenze, specialmente in quelle più gigionesche, diciamo così, dove usualmente ci scappa l'applauso - o forse sono io ad essere stato condizionato dalla scena e ho voluto vedere la ricerca & la domanda nello sguardo di Vic.
Le registrazioni ottime, cioè come speravo-immaginavo (è una questione ovvero perizia tecnica, quindi o viene o non viene come dovrebbe venire, i dilettanti possono accontentarsi del non-buono; non che io sia professionista, si tratta di buon gusto e di realismo); il sonoro, cioè la voce recitante, meglio nella 2ª perché ho aumentato fin da subito i valori di sensibilità e ricezione, differenziandoli per canale.
Le reazioni, i commenti, il giudizio di Vic? Nulla. Zero.
Non ha voluto vedere niente. Io non ho insistito perché il suo no è no! (molto evangelico). S'è congratulato con me quando l'ho assicurato che la registrazione ( non è una bugia se uso il singolare poiché mi riferisco all'azione di registrare, non alle cose) è venuta meglio dello sperato (meglio sempre esagerare un pochino quando si vende qualcosa, come la propria immagine di expert). Mi ha raccomandato di conservarne una copia. Una? "Ne posso far altre?" Perché no? - ha risposto con un mezzo sorriso Vic.
< C >
Di seguito trascrivo la registrazione della pièce; Vic non mi ha dato i suoi appunti (che, da quel che ho visto alle prove, erano un bel po' di fogli sparsi e diseguali, quindi, suppongo non d'agevole utilizzo per me), però gli ho chiesto chiarimenti quando il testo o l'azione erano ambigui e non sapevo che didascalia porre. Gli interventi di Vic sono citati, tutto il resto è la mia trascrizione (che Vic non ha visionato).
A mo' di conclusione del discorso iniziato in , qui ora possiamo da un medium ad un altro per arrivare allo scritto iniziale; sarebbe interessante confrontare il brogliaccio originale con questo copione che viene dalla mia tran-scrittura, a Vic piacendo.
Pubblico: zero.
Azione scenica in 3 atti di Old Vic.
Testo tratto dalla registrazione dello spettacolo, a cura di GV. Non rivisto dall’autore.
Buio. All'accendersi di tutte luci, s'apre il sipario (ben udibile il fruscio). L'attore è al centro del palcoscenico, ma non girato verso la platea, in piedi, eretto. Alla sinistra una poltrona vista di 3/4, una scala "a libro" in fondo, una sedia quasi a parete sulla destra; lo sfondo è una porta-finestra dipinta. Tavolinetto in proscenio, dx.
Attore (in caso di attrice, credo che siano necessarie modifiche sia al testo che nell'azione) : Il giorno fu pieno di lampi ed ora le stelle [mezzo giro su se stesso, rilassato] ed un gre-grè di ranelle. Rane palustri, non direi [alzando un braccio], ma di fossato recente scavato per irrigare il fecondo campo che sarà o è già? [braccio giù, capo spostato di lato] ricco di spighe. Spighe? Perché proprio e solo spighe ... di grano si suppone, così così bionde ondeggianti al sole e papaveri ... [come guardando, 1/4 di giro] sì, ci saranno papaveri, rossi, rossi nel paglierino del mare di spighe mature mosse dal vento. [abbassa le braccia] Ma il giorno fu pieno di lampi ed ora le stelle han poca luce per rischiarare i campi, e solo s'ode nel buio il gré-groa di rane e ranelle. E rospi? Troppo brutti per parlarne, così vivono nell'ombra anche se poi qualcuno li vede [recitante] "Vieni veloce, Piero, vieni a vedere! C'è un rospo tutto nero. Nous allons à le martyrizer." Non uccidere, ché è così facile, semplice, diretto, no, no, lo andiamo a torturare, martirizzare, che è più da comportamento umano. [va alla scala]
"Ne sarete voi degni?" [voce stentorea, ripete la domanda ad ogni scalino, fino ad arrivare in cima, poi voce melliflua demoniaca] Arrivato qui in alto, rospo o rana, vacca o toro, ratto o visone, savio o folle, pulito o sudicio, chic o kitsch, ogni parola prende il suo peso: "Kuhmist auf alle Sie, Rüben von meinem Garten!" {Sterco di vacca su tutti voi, rape del mio orto!}, dovuto alla legge di gravità, di accelerazione, di schianto nell'anima, no! [guardando e sbracciandosi verso l'alto] che anima? quella va in ... là, da qualche parte, ma [curvandosi] nella materia grigia si conficca il grè-grè di ranelle, il blà-blà di gufi saggi, il titití di roditori anonimi e il virulento gra-gra-gra-gra a cappella o con flatulenze d'organo di corvi, corvacci, cornacchie e gazze - ladre per antonomasia. [drizzandosi, le mani la petto] E un cuore trafitto sarà da spilloni e spade e spine di rovo e denti aguzzi di aguzzini mentecatti che ubbidiscono alla consegna [grido] Ciapa-copa-maça! e impongono l'ordine di essere ordinatamente inquadrati nella quadratura del cerchio della volontà altrui. [sedendo/seduto]
Plaft! La rana scoppia; la rana che voleva essere bue, come grandezza, non come comportamento, benché talvolta è del più sagace svendere le proprie capacità. [da seduto si lascia cadere giù in avanti tirandosi dietro la scala (non è difficile, dovete stare attenti ad agguantare bene il "pianerottolo" della stessa)] Chi cade, chi ruzzola [lascia la scala orizzontale aperta sul pavimento] chi viene lasciato lì [indica in alto] senza scala ma con una corda al collo. [si muove per il palco, salendo su sedia e poltrona, muovendo le dita da chiuse ad aperte] E plaft! plaft! plaft! plaft! [ad libitum] scoppiano le rane gonfiate, i palloni gonfiati, le idee gonfiate, le gonfiate ipocrisie, idiosincrasie, insaziabili aerofagie. [siede sul bordo della scala, recitativo]
Un giorno dopo l'altro, la cacca se ne va; aumenta l'immondizia, questo lo si sa; i rifiuti stanno aumentando, smaltirli come si fa? [alzandosi] L'acqua? Uso limitato. Fuoco? Uso condizionato. Aria? [appoggiandosi al bracciolo della poltrona, discorsivo] Era nei palloni, nelle rane, nelle città antiche; girava per il mondo, Libeccio, Tramontana, Maestrale; lo Scirocco, per natura un po' malaticcio, ora è patologicamente insalubre. L'aria, questa impalpabile sconosciuta. [incrocia le braccia, guardando giù] L'acqua almeno è lì, corrente, semovente, incolore o disgustosamente scura, limacciosa, repellente. L'acqua; nelle bottiglie di plastica. Le bottiglie di plastica sono prodotte per trasportare l'acqua "di fonte certificata", "minerale", "oligominerale", "buona & pura" e "con o senza qualcosa", oppure l'acqua viene usata come riempitivo economico, quasi un gadget, per lo smercio di plastica in forma di bottiglia? [mettendo le mani nelle tasche dei calzoni] Con le sigarette è di una chiarezza abbacinante il fatto che vendono carta al prezzo del tabacco [dalla tasca interna della giacca estrae un pacchetto], ed anche se il prezzo fosse uguale, è algebrico che dove si utilizza la carta del filtro si risparmia tabacco che serve a fabbricare sigarette in più; da qui i filtri sempre più assorbenti e salutari, cioè in pratica più lunghi. Più filtro, meno tabacco. [apre la scatola (che sembra un pacchetto di sigarette) e mette in bocca una pasticca (non capisco perché l'abbia fatto, come impatto visivo è un'ottima trovata, ma se non c'è pubblico!?), succhia ].
Più ... meno ... Più o meno. Di più, di meno. Uguaglianza è questo non avere né di più né di meno di X, Y, Z; di avere ed essere, essere, più o meno, tutto così così. Poi arriva la cicala, poi arriva la formica, poi arriva il leone, poi arriva la pecora, poi ... poi il più o il meno si oggettivizzano e il più della cicala non è necessariamente né il più né il meno della formica, che lavora più, di chi? se la cicala non lavora; quindi non ci può essere paragone alcuno. Però fra due cicale e fra due formiche: ovvio che sì! Fra un indio amazzonico e un agricoltore statunitense? No. Perché sono due specie diverse. Non come razza, ma come cultura. Ecco, come cultura -abitudini, leggi, credenze, cibo - il confronto con l'uso del più e del meno può esserci - non coinvolgendo né etica né valori assoluti. Fra due agricoltori, uno europeo e uno giapponese ... [si siede sulla poltrona, toglie i mocassini, incrocia le gambe]
Sedendo e mirando interminati campi e in essi alterni silenzi e voci di contadini al lavoro, seduto sto ma deambulando su gambe altrui, onorato patriarca, in vetusta portantina sollevata fra monti e valli in fior da quattro non proprio nerboruti servitori - le loro retribuzioni magre come i loro corpi scarni pelle-ossa-nervi e occhi socchiusi in sguardi lontani o cattivi o assonnati. Vado restando e dalle minuscole finestre quadrate incorniciate di damasco vermiglio si presenta allo sguardo lo srotolarsi del paesaggio lì fuori [si dondola a destra e a sinistra più volte]. Servi della gleba; animali del campo; fenicotteri di risaie con zanzare e rane. Rane democratiche che eleggeranno gracidando il loro gracidante presidente. Chiaro che sono democratiche le verdi raganelle dell’acquitrino ! Un re è mammifero, il principino un cucciolo; può essere mai un gi-ri-no!? O un pulcino o un cane figlio di cagna? Figlio di puttana sì, è concesso. Demente, incompetente, dolente, indolente, fraudolente, miserrimo cialtrone deficiente, tutto e più di decadente e degradante può essere un principe e un re, per non parlar d’imperatore blasfemo o lacrimevolmente bigotto, meschino e truffatore, fanfarone e cagasotto, irascibil mentecatto e scandaloso dissipatore. Un re dev’essere umano, vil razza dannata che da un dio fu creata. Om! [alza le braccia e continua nel suono sempre più cavernoso] Amen [salmodiato, canto gregoriano; quindi abbassa le mani e si china fino ad infilare le mani nei mocassini, dà un ruggito strozzato]
Arghct! [piedi a terra, alza un braccio – la mano nella scarpa, nuovo ruggito più convinto] Aarrr! Sono il re; il re leone. O mio povero cuor di leone [cammina a quattro gambe inarcato, poi man mano la camminata diviene scimmiesca], cuor mio piccino sei discendente di babbuino e di cercapiteco, filiazione di orango e scimpanzé; quadrumani [s’erge lasciando al suolo le scarpe] possenti, intelligenti, violenti [si batte il petto] di cui la discendenza è accertata, certificata: vedere il pedigree. [infilando i mocassini] Calzano come un guanto, le mani che son piedi e piedi che son mani nel circo equestre della vita dove col cul si fa trombetta e con a tromba si incita alla strage: umani contro umani, senza uno scopo ma il mero venir alle mani; e il sangue che scorre e il pianto che sale, e la follia che cresce e la letizia scompare.
Letizia ... [s’avvicina al tavolo] non è già gioia [mima come se quello che nomina fosse sul tavolo e lui lo prendesse in mano per guardarlo meglio], né allegria, né felicità sognata o appagata o sperata e agognata, ricevuta o data, presente o passata. Non è. Letizia è più, letizia è meno; letizia è come se ... oppure. Letizia ... di doman non c’è certezza; soldi, amori, languori, dolori, gloria, applauso, l’invidia tua e degli altri, angustie e dolori, ma scomparsi, svaniti, diluiti, sa-na-ti. Pancia piena non conosce digiuno, e i ricordi, i ricordi gettati il fondo al mar [sorriso melenso], tanto: son bio-degradabili.
Bio [dal tavolo alla sedia] , eco; eccoci qua [siede esageratamente composto]: una sedia non è poltrona, ma è sempre meglio che stare in piedi a fare la fila per pagare una bolletta o ritirare la pensione, spedire una raccomandata con ricevuta di ritorno o ricevere il certificato di sana forte robusta costituzione o di ... di ... che ne sa la gente di quel si aspetta? Sììì, per aspettare aspetta sbuffando, imprecando, pregando domineiddio e dominesanto, poi arriva l’autobus, il tram, il metrò, l’amico con la motocicletta e la morte senza fretta, svolazzante come una gentil farfalletta [sale sulla sedia] e bisbiglia a distesa, sì: bisbiglia, l’ho presa, l’ho presa! Chi? dove? quando? come? L’ho presa, l’ho presa! [meno bambinesco] La prima volta tuuutta la gente del villaggio accorse con rastrelli, forconi, scope e battipanni. La seconda volta: eccolo! eccolo! eccolo! Si videro anche due pagaie e una canna da pesca a cannocchiale, chiusa. La terza volta ... tutta la gente del villaggio tornò a casa mugugnando o brontolando: “Quello non ci frega più. Quell’idiota – o cretino o imbecille o deficiente – può gridare di nuovo ‘Al lupo, al lupo!’ che ...” [cambia tono] Al lupo! Al lupo! [pacato, sedendosi comodo sulla sedia]
Fatelo entrare, che problema c’è? Un lupo? Non è poi così temibile, terribile, pauroso e feroce un lupo zannuto e peloso: se non è in turma, in branco, in orda, in falange ululante e ringhiante non scorda la paura che lo fa recalcitrante e servile e cane e miglior amico del suo simile: l’uomo. [si pone in piedi dietro la sedia] Avanzino, e gli si accoglierà con la dovuta fermezza e goliardia. Voi ululerete con le vostre trombe e noi sbatocchieremo le nostre campane; suonerete musica da discoteca allucinogena? Altri intoneranno inni di vitalità soddisfatta senza nemmeno aprir bocca. [allunga il braccio come impugnasse una pistola] Al ventre, al ventre! Mirate al ventre! Il cuore ... il cuore si può aggiustare, rattoppare, cambiare. Sette spade lo possono trafiggere, un’aquila lo può dilaniare, un amore lo può dissecare, una gioia lo può far scoppiare, ma poi torna l’araba fenice della vita alla vita, ed è il proseguire del film, il nuovo episodio della tele-novela. Ma lo stomaco no, l’intestino no; le viscere, l’immondo, la vita è lì.
Harakiri, seppuku. [gira la sedia e vi si siede a cavalcioni] Può essere che uno si stufi, perché no? e se ne va. Lascia questo mondo, che sembra l’unico dei mondi possibili se non fosse una costruzione mentale. Chiaramente è una costruzione mentale! [appoggia le braccia incrociate sullo schienale] Il suicida si suicida perché ha scelto quella via di uscita. Ha scelto poiché “coacti tamen volunt”; logico che se si viene privati della propria volontà come lo può essere un internato in un lager in attesa di essere morto perdavvero, non c’è scelta perché l’unica via d’uscita l’hanno decisa gli altri. Ma ma ma mannaggia! È così consequenziale andare a sbattere contro un muro se si infila di corsa, magari in motorino, un vicolo cieco, chiuso, senza uscita. Verrà la morte e avrà occhietti miopi che non vedono un palmo dal suo naso, figurarsi se ‘sta handicappata di morte vede gli orizzonti non molto lontani e le altre vie di uscita – non necessariamente di sicurezza-lasciare-libero-il-passaggio. [alzandosi lentamente e facendo finta di avere un bicchiere in mano]
Sarà che è mezzo pieno o già metà del suo contenuto se n’andò? Fu che già una parte fu bevuta ed ora, ora non rimane che un’altra identica, o ciò che resta non è che speculare riflesso del già ingerito? È o non è a mezzo il bicchiere? È o non è a mezzo il vuoto e il pieno? È o non è un fifty-fifty? [drammatico] Un cinquanta per cento che resta e un 50% [infila un dito nel presunto bicchiere] che, hellas!, se n’è andato e non ritornerà mai mai più? È questo ch’io stringo fra le dita e mi tormenta l’anima? Morire è un po’ dormire. [“beve”] Sognare ...Svanire, svenire; cosa fatta, capo ha. Al cento per cento. [va a sedersi-nascondersi dietro la poltrona: è la:]
Fine del 1° atto
[(come ho capito e che Vic ha confermato, infatti dopo un minuto si alza, rimette la scala nella verticale, rigira la sedia e) rimane un attimo immobile nella posizione iniziale (che, m’ha spiegato Vic, era casuale in quanto lui girava su se stesso mentre aspettava l’accensione delle luci – infatti come verifica ci sono i filmati dei due inizi)] È importante sapere da dove si viene per decidere dove andare? Non è sufficiente sapere dove, dove si sta andando? Probabilmente aiuta per mantenere la direzione, il retto cammino – benché ci sia comunque la possibilità di muoversi in cerchio. Nella realtà materiale, nella mezzerìa d’un guado, è essenziale sapere da dove si è partiti per un eventuale dietro-front; come pure se si ha un biglietto di viaggio di andata e ritorno. Altrimenti ... quale può essere la differenza fra il sapere e il non conoscere il luogo, il punto di partenza? Un richiamo alle radici? [va alla scala] Un legame con il passato? [un piede su un gradino, uno sull’altro superiore] Una permanente o pervicace visione d’insieme?
Il vivere su una collina allarga l’orizzonte, ma fa sì che molte cose scivolino, rotolino, si spostino verso il basso; che si perdano. E per essere su, chi ci vive è obbligato a guardare giù per vedere dove si trova, se si guarda intorno o ne vede altre, lontano, più in là o, se è nel declivio, la parete di fianco ossia quasi nulla. Nella notte che cosa si vede? Le luci, i chiarori di qualsiasi tipo; lucciole o lanterne o stelle l’importanza è minima poiché l’essenza è la stessa: una crepa, un pertugio, una spaccatura nelle tenebre. [sale di un gradino] E se c’è la luna ... la si può [altro gradino] toccare [muove un braccio verso l’alto] o almeno ... È lei che parla? È lei che mormora? È lei che ... che canta? La luna, e il mondo notturno e il tepore dell’estate. Una partita a tennis con tiri soft nel plenilunio, la pallina froufrou del tabarin impreziosita con paillettes e glitter per brillare, diva, nella notte. Vola; ri-vola; s’attarda; rimbalza. C’è e non c’è, nel chiaro pallore di raggi di luna. E se domani, e se domani, su e [scende] giù per le amate scale il telefonino squilla [prende un invisibile telefonino dall’interno della giacca] e: Sei tu? sono io! sei tu! Sono io? Chissà chi lo sa chi è, l’io, il tu. Lui lei noi voi.
Ella [apre la mano, via il telefono] non sa. Lui, invece ... In quanto alla gente, c’è sempre il sondaggio di opinione [va al tavolo, mima di utilizzare un pc], le inchieste, il passa-parola, la chat, le statistiche, il pettegolezzo, le indiscrezioni, gli indici che indicano, i pollici che assentiscono, il medio che manda, e l’anulare che tiene fede o la perde. E il mignolo, povero ditino abbandonato e negletto? Può sempre farsi crescere l’unghia e agghindarsi con un anello, d’oro d’oro d’oro, con le iniziali del nome con cui fu registrata l’unità vivente indipendente nominalmente intelligente, di cui è componente non poi così indispensabile. [legge nell’immaginario pc] Mignolo, dal francese -?- mignon, graziosamente piccolo, quinto dito della mano dell’uomo, ma assente o ridotto in altri animali. [si sposta lungo il perimetro semicircolare del palco, da dx]
I segni del tempo, le vestigia del passato, le tracce di percorsi più visibili in basso che in alto; non ricordi ma presenze afone da intendere nel loro apparire. Porta d’entrata e d’uscita; porta che apre, porta che chiude; porta che nasconde o protegge o isola. Curiosità di porta chiusa, interrogativo che sorge tanto forte quanto è robusta la porta; invito del vuoto nel muro di porta spalancata o ammaliatrice spiraglio di porta socchiusa: entra, entra! Varca la soglia, procedi, scopri. Qualcosa di nuovo oppur antico; un passo dopo l’altro, senza fretta, no; Sali [tocca] gradino dopo gradino. O scendi, gradino dopo gradino, per non cadere, ruzzolare, precipitare e toccare il suolo, la terra, con i piedi e non di spalla, di nuca, di natica. [da dietro la poltrona, defilato]
Il nascondersi è una bischerata; chi si cela si apparta, si toglie di mezzo – un sinonimo azzeccato - , si occulta e non vede, segregato com’è, che il mondo lo ignora, ovviamente, banalmente e che è lui , l’obliterato, a non partecipare delle conoscenze conviviali; nascondere se stessi è, rovescio della medaglia, ovvero azione riflessa, nascondere a se stessi, obnubilare, ciò che gira intorno. Il mondo gira, la terra la luna il sole girano, girano. Ed è un girotondo e [viene verso il centro] una mosca cieca [mima], qualcuno sarà preso. E lo struzzo, paradigmaticamente, occulta la testa la testa per scomparire e [venendo in proscenio, s’irrigidisce e serra con più o meno forza (si veda il video!) gli occhi] chi non vede non è visto, chi non vede non è visto, chinonvedenonèvisto; chi non è visto non vede. Spiare? [sbarrando gli occhi, guardingo, andando alla poltrona e frugandola] È tutt’altra faccenda. È voler sapere senza far sapere che si vuol sapere quello che altri preferirebbero che non si sapesse. Non è nascondersi, ma [va alla scala e guarda di su di giù di qua e di là, “furtivo”] intrufolarsi, mimetizzarsi, infiltrarsi ampliando e affinando l’udito, la vista, il senso [contando platealmente sulle dita] sesto!
Ma non tutto è [si muove a zig-zag] perduto, basta sorridere, sorridere, sorridete che state essendo filmati! Non era più serio un “Occhio! Telecamera filmante.” o no? Un bel participio presente poliziesco e un gerundio passivo circense che fa ridere e solo gli schizzati lo prendono sul serio [isterico]: la mia privacy la mia privacy la mia privacy! [prende la sedia e la pone in testa – le barrette poggiapiede danno l’idea di gabbia] Dalla sua bella gabbia non fuggirà l’uccellino, così non piangerà il fantolino e la tristezza del doman è procastinata ad altra data, ma non cassata, questo no, giammai! Il pepe della vita sono i guai. Ma certo tutti, tutti tutti tuttititì! se li vanno a cercare, col lanternino! Altri, non è poi così incredibile dictu, li com-pra-no, se li vanno a comprare: a me due di quelli lì! Io ne vorrei solo un etto e mezzo. Non ne avete più di quelli farciti? Teresa, guarda, quello lì: l’ho provato, ti rompe proprio … [abbassa la sedia, la usa come un carrello] Un po’ di questo, un po’ di quello, e quellolì e quellolà e vai vai vai con la spesa …
Shopping! Sciò sciò! Largo allo shopping! Che fa bene; è rilassante. Quasi. Ci mettiamo un libro? [mima di sfogliarne alcuni al tavolo] Uhm; aspettiamo che facciano il film, che è meglio; anzi: mi sa che è più economico. E poi si vede più in grande, alla grande, vuoi mettere tutte queste parole qui piccine: stancano a leggerle tutte una per una. Sono cose da giovani! Loro sono abituati a leggere e poi hanno tempo. E gli occhi buoni. [siede di fianco al tavolo, v’appoggia il braccio sx] Vecchiaia, poiché il parlar è vano e il lamentarsi patetico, prendiamone atto e così sia. I vecchi … gli anziani sono quelli che si rallegrano quando qualcuno dà loro un paio di anni in meno della loro età anagrafica, che per alcuni è già nei loro quaranta, i vanesi. Anziane, con certificato di invecchiamento, quelle donne che copiano moda e trucco dalle loro nipoti, divenendo raccapriccianti teen-agers grinzose da film apocalittici – Il Giorno Dopo – o, meglio, sugli zombi. Morti. Viventi. Così così.
L’essere e l’apparire; ma non è nemmeno questo poiché nella società dell’anonimato è l’attenzione che si vuole attirare, costi quel che costi sia in sevizie sul proprio corpo - ferramenta varia inserita nella propria carne – sia in ridicolaggini demenziali e patetiche – le mutandine sopra i calzoni. [si alza dopo aver arrotolato una gamba dei calzoni, indi si toglie la giacca che appende allo schienale della sedia, e tira fuori dai calzoni una parte della camicia] Manicomio è scritto dalla parte di fuori dell’edificio, dicevano gli antidiluviani; ma ora che tutto il mondo è appunto un grande manicomio … Essere alla moda … cioè la libertà di essere alla moda è un diritto del giovane e del cittadino. Ora la libertà si sa che cos’è; si sa. Che poi è una cosa millenaria, antica, museale. Mentre la moda è il presente, è l’attualità, è l’oggi giovane, dinamico, effervescente e in.
In – punto; a che servono tante parole, definizioni … In. Punto. Quello di adesso, però, perché l’in di ieri … Ciao! Non è più in perché è vecchio, superato, fuori moda: out. Non è come yin e yang, no; quello che è out è da buttare, nascondere, eliminare, quello che è in è da comprare ed esibire, finché dura cioè finché non arriva un altro “in” a rendere il precedente sorpassato, “out”. Tutto all’insegna blasfema e insolentemente falsa che sono i giovani, la gente, il “popolo” a volerlo, quando invece è l’offerta a indirizzare la domanda: non si compera quel che si vuole ma quello che si trova al mercato mega, super, iper … o bancarelle. Nessuno sa, nemmeno i più fanatici seguitori del mutare della moda, quelli cioè che devono – gliel’ha ordinato un loro dio manicheo specializzato in styling – essere sempre in, quale sarà l’in della prossima stagione; al massimo si può almanaccare sulla tendenza, ma gli affaristi sono furbacchioni perché zàccate! che ti immettono sul mercato esattamente l’opposto, andando contro la “tendenza”, così a una calzatura sobria può far seguito una orribilmente equipaggiata di lacci e cinturini o una scarpina leggera senza tacco oppure con un 8 cm. [si riassetta il vestito, indossa la giacca dopo una specie di défilé]
Maschere. Personaggi presunti, più pensati che agiti. Persone; tra la folla. Anonimi; non potendo nascondere età e razza, si mimetizza o evidenzia il proprio sesso e si inganna se stessi e gli altri sul proprio conto in banca. L’abito vorrebbe fare il monaco, ma appena può essere un effimero richiamo per pochi secondi di attenzione. [muove verso la ribalta] Nudi arriveremo alla meta, nudi alla fine, nudi all’inizio, nudi come atleti greci alle sacre olimpiadi, nudi come giovani amanti che nulla hanno da nascondere se non la propria inesperienza e candore. Le meretrici [va alla poltrona e vi si siede scompostamente] occultano nella pretesa di mostrare, le meretrici che mettono in vendita i loro favori, le loro prestazioni, la loro anima come politici intrallazzatori, sacerdoti simoniaci, generali boriosi, giornalisti adulatori, zotici amareggiati e gran dame frigidamente gelose. [siede compostamente e muove una o entrambe le braccia in segno di benedizione, di saluto civile e militare, di vittoria, di assenso, etc.] Io vi darò di più, io vi darò di più, io vi darò …, io … [si alza]
Loro, loro non sanno quello che fanno, e chi lo sa appare appena nei titoli di coda del grande, fantastico, coinvolgente, amorale e inconcludente film della vita. Di qualcuno. Di uno; di nessuno, di centomila. Pensaci, Giacomino Giacometto prima di tirare il collo al tuo galletto. E il corvo si fa pavone, urbis et orbis, e l’asino si fa leone, l’État c’est moi, e la pecora continua a bere dando una buona scusa al lupo per una psico-terapia lanosa. [liscia e lascia la poltrona, va alla scala] Ecco che una scala di valori c’è, verticale, verso l’alto; orizzontale non dà: troppo effimero, inefficiente e scomodo il coturno, ci si siede e sua altezza, sua eminenza, sua eccellenza, sua prepotenza si eguaglia; no, no, meglio un alto recesso, un balcone, un pancone, un pulpito di gesso, e le suddite rane a sguazzare nel pantano, con un gracchiare lontano come lo stormir di foglie mosse dal vento.
Il giorno [è sotto la scala-“capanno”] fu pieno di lampi, di scoppi e fragori; il timore tanto presente e pressante e persistente – tanti furono i lampi!- da cangiarsi in paura; e grida acute e brevi improvvise e preghiere biascicate che sembrano il murmure dell’acqua della pioggia scorrente in una canaletta di scolo, lì fuori. Possibile morire così, trafitti da un raggio di luce ed è subito cenere scura, carne abbrustolita, midolla bollita e nemmeno il tempo di dire …? [girando attorno e dentro-sotto la scala, canta (sorpresa: Vic chansonnier!)] “Non dimenticar che t’ho voluto tanto bene; t’ho saputo amar, non dimenticar, non di-men-ti-car. Se ci allontanò e ci separò l’ala del polastro …” {v. Nota 1} [enfatizzando va a sbattere contro la porta-finestra, contro la scala, indi inciampa e va a cadere sulla poltrona, dove a faccia nascosta recita]
Fu siccome immobile giacente sul sofà, celando il volto avvampante come tizzone ardente e poi, e poi rivedendo e pensando, celiando e sminuendo, la bocca levò dal caldo pasto, caro il mio demon [alza il capo con bocca e occhi spalancati] dagli occhi di chi plagia il sé, l’altrui, l’altro. [si cela dietro la poltrona]
Fine del 2° atto.
[Riappare dopo un paio di minuti saltellando a quatro zampe come una rana, sul lato sx] Rana ranella rospo hylo [camminando con le gambe piegate, mento sulle ginocchia] nano nanerottolo gnomo [arrivato alla sedia, si sdraia di schiena, la testa quasi a toccare il pavimento] riverso converso da un lato diverso vedendo le cose , dal basso in su sfatando il tabù che pindarico è il volo, amorfo il suolo e la zolla, l’orizzonte ristretto per chi striscia, negletto, sul terreno. [prende la posizione seduto, schiena alla platea] Anche così però però però la domanda è la stessa: ”Che ci sarà al di là, dietro, quella ... [osserva brevemente] quella poltrona, quella porta, quel muro, quel quello-lì?” Domande e domande e domande, per avere risposte e risposte e bugie, forse pie, forse interessate, forse abborracciate, soddisfacendo la richiesta dell’interrogativa. Questa [avvicinandosi] è una scala? E questa? Una porta? Pare una porta, ma non è; simulacro pittato che ricorda, prefigura, rimanda ad una realtà incontrata chissà dove, chissà quando. [s’aggira a guardare e toccare e usare – siede, sale, s’appoggia – gli oggetti di scena, per parecchi minuti] Un finale di partita non è: il gioco ha il suo tempo, se ha le sue regole e i segni son chiari: l’ultima carta in mano, l’ultima puntata: “Rien ne va plus!”, l’ultima palla da buttare in buca, le lancette dell’orologio, l’arbitro fischiante la fine.
La richiesta di tempi supplementari presuppone un gioco giocato, sospeso, giocato di nuovo e interrotto [guardando il ripiano del tavolo] due minuti qui, un’ora lì, un due mesi, un anno ... no, più. Talvolta la vita non scorre, si ferma. Sciocchezze! Essa, la vita [siede sul bordo del proscenio], scorre, va, prosegue; un percorso senza nota, senza segni, senza storia. Uniformità incolore o grigia o fumosa o banalmente inavvertita; ed è già sera, ed è già la mezzanotte, ed è l’alba, la nuova alba così simile alla precedente da essere già vecchia, e il giorno già consumato nella sua coazione a ripercorrere la stessa identica via che giustifica appena, a malapena, il ritorno indietro. È la notte che torna, mentre il fiume va, tutto scorre, fluisce; biascicando. Nemmeno lui lo sa dove va; e le ninfe son rane e le grazie son carpe, e i pensieri son trote arcobaleno dalle carni rosa. Rosa. [si alza e gira lentamente di 360°]
Il grande fiume, il piccolo fiume, il fiumiciattolo, il rivolo, lo scolo, lo stillicidio – goccia su goccia – e non è il mare ma una presenza che scompare, svanisce: dov’è il fiume, dov’è la vita? [si muove guardando il pavimento] Tracce o segnali? Pista o passaggio? Questo: cos’è? Questo: che significa? Questo: che indica? Questo: che messaggio racchiude? [continua mimando ritrovamenti, occhiate interrogative] Questo, quello, codesto. [dopo aver indicato col braccio giù su di lato, siede comodamente sulla poltrona] Tutto questo ha un senso? Ah, sì! Ha storia! Ma quale? Una qualunque, può bastare?
E le nuvole lassù hanno anch’esse qualcosa da dire? Non portano messaggi? No? E codeste rughe invece parlano, parlano di ... un gioco che sta per finire? Il segno del tempo. I segni del tempo. Il mutare della forma delle nubi che non celano né palesano né suppongono messaggi. [indicando su] Ma quello è ... E quello è ... Questo, invece, sembra, come dire ... [riflette in posa “artistica” per 1’]
Il giorno fu pieno di lampi; e piovve, assai. Pioggia che non bagna se non lì, oltre il vetro, la campagna, e la montagna, e la gente che si lagna del ritardo del tram. [s’alza] L’ombrello, dov’è l’ombrello? dimenticato chissà dove ... No, è in casa. Sicuro? Avete fretta?! Ci si ripara sotto questa scaletta e la pioggia va cadendo, ciarlando, tamburellando – nervosa! chi? Lei, la pioggia. Domani? Chissà; ma la speranza è ... Ma certo! se speranza è, è del sereno, il bel tempo, la schiarita, il firmamento nella sera, certo, perché è il giorno che fu pieno di lampi, ed ora signorinella pallida, la luna, forse, chissà, se vorrebbe altra sonorità e non il gre-gre-gre di ranelle – poverelle, che ne sanno di scala cromatica e di melodia, nel pantano è la solita monotonia.
Nel pantano e nello stagno, sai che bel guadagno ad avere la voce d’usignolo? [gli suona il telefonino che estrae; sale la scala per cercare “campo”] Che ...? Come? Sì, ...ah! [mima per 30” le reazioni all’ascolto] Ma va’? Sul serio, anche ...? [altri 30”, meno contrito, più condiscendente] Byyyy-e! [rimette in tasca il cellulare, siede al vertice della scala] {v. Nota² }
Si suppone che si incominci dall’inizio; dall’inizio dei tempi. Un nostro inizio, in ogni caso. Ed erano le tenebre; ed era il silenzio; ed era il vuoto. E il tempo stesso non era. Né la gioia e il dolore; né l’odio e l’amore. Non c’erano né opposti né uguali. Il nulla c’era. Lo zero. Zero. [fa l’O con pollice e indice, poi con le due mani quindi con le braccia] Uno zerone grande così che prendeva tutto l’universo ... che non c’era. O c’era? Se non c’è nulla, c’è il nulla e nient’altro; c’è quella cosa lì che non c’è. Scendendo [lo fa] più in basso – si fa per dire ché se non c’è che il vuoto, di qua o di là è tutto uguale – si fa un po’ di luce, con i piedi per terra, certo, e gli occhi socchiusi, aperti, spalancati ...[toccando scala, poltrona,...] Ma guarda un po’ te! Bastava aprire gli occhi e ... Basta aprire gli occhi e il mondo appare spazioso e comodo come una poltrona. Oh, ovvio, ci si può sedere anche al suolo, meno comodo, meno pulito, meno, e diciamolo!, civile. Sedersi ... [va alla sedia]
È questa la civiltà? È questo il progresso? [siede composto, faraonico] Dall’uomo eretto all’uomo seduto; sedendo e mirando, prendendoci di mira e comandando, un cavallo, un suddito,un esercito, il personal computer; l’automobile, sedendo e guidando in intasati spazi e senza uscire da essi in umani accenti e meccanici borbottii, stridii, lancinanti latrati. Seduti, e chinandosi [esegue] appena, le dita sfiorano il pavimento, il terreno: polvere sulle dita. Polvere. [si guarda le punte delle dita; si alza, va al tavolo dove mima un laboratorio di ricerca: pone la polvere su uno poi due vetrini sotto il microscopio, poi in provette, guarda, riprova con fonemi che accompagnano l’azione – impazienza, sorpresa, delusione, idea, ...- ripete il tutto a ritmo accelerato come nei film comici indi si immobilizza con lo sguardo nel vuoto, le dita che lisciano il tavolo per poi sfregarsi come per sentire la consistenza della:] Polvere, null’altro se non polvere, ed acqua che gonfia e ammolla e agglomera le particelle ed è un piatto [mima la lavorazione], un vaso d’argilla, un uomo di creta, un mattone di fango che il sole secca prosciuga screpola come il limo dello stagno che incrosta [cammina mimando passi nella fanghiglia] gli stivali del principe che è un ranocchio ma che ancora non lo sa. Dov’è l’acqua perché si specchi? Dov’è lo specchio d’acqua perché s’avveda che un rospo è la sembianza del suo essere.
Dov’è? il rospo, e la rana e la pozza d’acqua che risuona nel tuffo di impaurite ranocchie: plop, plop, plop-plop! [s’accoccola per guardare meglio] Dove? La fuga della ricerca o la ricerca della fuga? Paure e timori, o noie e dissapori [s’alza come se avesse strappato una margherita e ne stacca i petali lentamente, alzando un poco il braccio per farli cadere e ne osserva il volo], o il caso e gli eventi – m’ama; non m’ama; poco-poco; mi mente spudoratamente, ma la felicità è anche, soprattutto, una finta realtà. Non sono [butta il fiore] bugie, ma pie illusioni [muove mani e braccia come un prestidigitatore], necessarie convinzioni d’una realtà fittizzia, d’un mito che la fissa ed una pratica che nasconde l’inganno per plateale consenso.
Ed ecco gli eroi [mostra sul palmo della mano quindi pone sul tavolo]; ed ecco gli dei, ed ecco un bel-mazzolin-di-fior di virtù; to’! l’amor di patria; questa ... questa è la verità, però [altra mano] anche questa! Sorelle? gemelle? parenti? Neanche a pensarci: sono verità differenti, indipendenti, concorrenti, contendenti: io sono la verità, tu sei la verità?, lei è la verità; noi, noi abbiamo una verità vera; voi avete una verità falsa, non vedete quanto è falsa la vostra verità che non è rigettata persino da loro che sono impantanati in una verità sedicente, aberrante, inconcludente e, perché mai? perché?, seducente.
Godere della propria verità o soffrirne – soffrire, sì, ch’è più facile, più comodo possiamo dire, e comunque più autonomo e personale e privato: per straziare un cuore uno si basta, il singolo isolato individuo non ha bisogno proprio di nessun altro per farsi del male, per tormentarsi, torturarsi, soffrire, patire. Il cuore contrito, lo stomaco contratto, i genitali costritti: due vigorose fustigate o una tassa in più sulle droghe legali non possono che aiutare a compiangersi di più e lamentarsi maggiormente. Soffrire è vivere, suvvia, non lo si neghi! Non aver nulla di cui preoccuparsi, di cui impensierirsi, di cui inquietarsi rende la vita vana, il giorno vuoto, le notti soporifere e il domani ... il domani? Chi ci pensa al domani – “di cui non c’è certezza” dice il rospo, ma la rana, pragmatica, afferma pacata che “si vedrà”. [togliendosi la giacca e ponendola sulla spalliera della sedia, in tono neutro]
Lampi e tuoni, fulmini e saette, il battere della pioggia e l’ulular del vento [si siede di traverso sulla poltrona, tolte le scarpe]: che giornataccia! Quando finirà; continuerà; nessuno-lo-sa-mio-dio-che-si-fa. Angoscia; tristezza; dolore che tesse idiosincrasie nell’anima come tele di ragno in stanze neglette. E così v’incappa la domanda come moscone sbadato invischiato nella rete che dibattendosi ronzando chiede: “ zzÈ questazz la viZZta zz?” intendendo, considerato chi proferisce la domanda, “ronzando infastidito e infastidente sullo sterco e l’immondizia?”. Ed ecco [mette le mani dietro la nuca, comodo] la bellissima pensata di mente illuminata dalle fitte ipocondriache di cerebro ottenebrato dall’avulso piacere di cose gradite [batte i piedi, gambe alzate tese, fra loro]: meglio la non-vita, ovvero un’altra vita più in là, più oltre, dopo ... dopo ... [serafico] la morte.
Al di là dei monti e dei mari c’è, nelle fiabe, una principessa o una strega o la soluzione del problema, così alla fine dei mesi e anni, miei-tuoi-suoi, c’è la mia-tua-sua morte che aspetta a braccia, e tomba, aperte. E vai! [stira le braccia e le gambe] Ebete, infantile, insensato come buttare il gheriglio e mangiare il guscio della noce o comprare una coppetta di gelato per possedere dipoi la spatolina. [siede di sbieco, gambe penzoloni sul bracciolo interno] Se tutto fosse gioco non ci sarebbe da chiedere ”perché”, invece vien chiesta una serietà che dev’essere giustificata con un fine, ed allora ecco che incominciano i guai, le preoccupazioni, il non-piacere e le interminabili e ineffabili seccature.
Nel vero concreto reale pantano, nell’umido limo, nell’acqua cheta, fra l’erba e la giuncaia, la rana pensa a ... a ... Ma pensa la rana? medita la raganella? filosofeggia il girino? È il rospo teologo? Quante domande, quante insensatezze già nella richiesta d’una risposta che non esiste, che non c’è. La formulazione dell’enunciato interrogativo è un processo, un percorso verbale, linguistico: vi potete chiedere “di che colore è il vento”, oppure “se è nato prima l’uovo o la gallina” – un classico - oppure [si alza, mette le punte dei piedi nei mocassini] “se ballare è muovere le gambe e deambulare con movenze più o meno ariose e ritmiche, può chiamarsi danzante un corpo umano, un essere umano, una persona viva e cosciente e sveglia, immobile?”
Il moto nell’immoto, il suono nel silenzio, il significato nell’insignificante, il nulla nel tutto. [trascina le scarpe, in punta di piedi; arrivato al centro estrae la camicia dai calzoni, poi s’atteggia a varie figure di danza; sbottona i polsini e a gambe unite, sempre sulla punta dei piedi, alza le braccia e le fa scendere lentamente ai lati] gre, gre, gre [abbassando il capo] di ranelle. [30”, abbassa i talloni, più di 1’ immobile, gira su se stesso braccia a semicerchio al petto ..., buio (un po’ in ritardo dovendo schiacciare io l’interruttore)] Fine azione teatrale.
Questo è quanto, ovvero cosa fatta capo ha. Ognuno può dire la sua, ovvero trarre le proprie conclusioni.
Le musiche di sottofondo, che ho aggiunto nell’edizione filmica, sono sintetizzazioni del gregrè e atmosfere (onde del mare, rumore del traffico, “silenzi”, ...) elettroniche, grazie al prezioso (nel basso senso di : costoso) compendio tecnologico dell’impagabile Machin Chouette.
Note.
1. La canzone “Non dimenticar (che t’ho voluto tanto bene)” è di Galdieri-Redi. La sostituzione di “destino” con “polastro” (pollo) è di Jolanda G.
2. L’inserimento della chiamata cellulare non l’ho capita, la trovo anzi incongrua al rifiuto di qualsivoglia presenza; la chiamata era fittizia, ma non così chiaramente falsa, “teatrale”, come la precedente dove era un riferimento cosificato e funzionale, in pratica una metafora dove il riferimento gestuale al telefonino rimandava pretestuosamente ad un interlocutore cioè ad un altro, rendendo ovvio il dialogo senza occorrenza d’altri artifizi scenici, il tutto racchiuso nella modalità esplicativa – in un’ottica banalmente grammaticale si è passati dal discorso indiretto a quello diretto con una mediazione gestuale. Nel secondo caso il cellulare è vero, reale, tangibile così come la telefonata, per quanto finta, gigionesca, chiaramente “scenica” possa essere, rappresenta una conversazione al telefono non un rimando a un dialogo fra due persone in cui il telefono – evocato! – è la chiave interpretativa dello sdoppiarsi del monologo. Nel primo caso è un atto rettorico, nel secondo un’intrusione allogena effettiva.
Perché inserirla? Ovvero, perché proporre una presenza per quanto indiretta, lontana, assente? In più, a peggiorare l’intrusione –sic! – è l’anonimato del mittente, dell’interlocutore, del locutore che si dovrebbe scoprire più avanti e inadeguatamente. La giustificazione di Vic è, a mio avviso, piuttosto flebile, fiacca, pretestuosa: stacco narrativo, pausa – apoké, sic! , ovvero “sospensione di giudizio” in quanto si ritorna sull’enunciato sciorinato (aggettivazione mia) “politicamente poco corretto” su rane & fango. Un intervento etereo – le onde elettriche, molto tardo-positivista, direi, come teofania – che riporta a riconsiderare la realtà ranide e alla rivalutazione del limo.
Tutto può essere, ma la mia perplessità resta perché se tutta l’azione scenica è un flusso di memoria e considerazioni estemporanee che danno alla narrazione un andamento non lineare, ma al più spiralato per i continui ritorni d’immagini & temi, non vedo la necessità del richiamo telefonico. Tirata per i capelli, ovvero volendo proprio trovare una giustificazione e un parallelo, il riferimento può essere alla pratica della meditazione buddista zen dove un monaco dà un colpo di bastone sulla spalla di quelli che meditano per distrarli (sì distrarli: è zen, neh!) dal meditare ovvero dare un altro corso al loro non-pensiero. Questa è un’interpretazione tutta mia che non mi giustifica, a livello razionale, i tre atti teatrali che non portano a nulla, ossia non v’è un percorso né temporale tipo ieri-oggi-domani, né fattuale antefatto-ricerca-soluzione, né mentale tesi-antitesi-sintesi. Un dire astratto, cubista, naïf, action-penting, ..., ready made. Well, it’ not my cup of tea.
São Paulo, 9 aprile (Bruxelles, 29) 2012.
[revisione & battitura (g.v.), 5 maggio 2012]
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