Non più
Giancarlo Varagnolo
Silenzio. Era rimasta di fronte alla porta finché il rumore dell’automobile era svanito. Silenzio; il gocciolio della pendola in salotto segnava il trascorrere del tempo, senza disturbare. Era silienzio nella casa.
Spense la luce in entrata e passò in cucina: posate, piattini, tazze e bicchieri in attesa d’essere lavati ingombravano ogni ripiano. Prese un grembiule, l’allacciò in vita; infilò un guanto di gomma giallino, e prima di infilare l’altro schiacciò il tasto di avvio del registratore.
Accordi di piano, “Sentimentale, un po’ all’antica sei “. Strozzò la voce del cantante premendo lo stop. Fece uscire la cassetta – i guanti ancora asciutti. Attimi di esitazione, poi ne sfilò una dalla teca, l’introdusse e, schiacciato l’avvio, prese la spugna e vi spruzzò il detersivo.
“... rotoliamoci nel trifoglio ancora una volta, dai, zuccherino, continuiamo ...”. Posò la spugnetta insaponata – la prima parte del lavoro era quasi conclusa a giudicare della schiuma che copriva le stoviglie impilate. Tentò di togliersi un guanto, ma rinunciò. Andò con le mani congiunte nello studio.
La custodia nera sagomata era appoggiata sul basso tavolino, si distingueva chiaramente nella penombra della luce che entrava dalla strada. Fece scattare la chiusura lasciando il segno umido delle dita sul coperchio. Afferrò il violino per il manico, lo estrasse facendo svolazzare un panno leggero che lo copriva in parte; lasciò andare il coperchio che si chiuse con uno sbuffo.
Il primo colpo provocò un breve suono sordo; la donna girò l’impugnatura di 90° e colpì con il fianco del violino due volte con forza, veloce, la morsa in ghisa del tavolo da lavoro nel garage in penombra. La culatta della cassa penzolò trattenuta al manico da tre corde. Depose il tutto sul ripiano del tavolo e ritornò in cucina; “ ... con quel vestito rosso e quel tuo modo di camminare tutti gli sguardi sono per te ...”.
*
L’aria del mattino era frizzante con un sole pallido ma promettente; aveva aggiunto altri rametti e pagine spiegazzate di giornale alle foglie secche del contenitore metallico in fondo al giardino, prese il violino, che aveva avvolto in fogli di giornale e con la scure assestò alcuni colpi al riccio e tentò di frantumare i neri piroli d’un legno duro e resistente al fuoco: sapeva che non sarebbero bruciati, erano rimasti quasi intatti quelli ben più piccoli che aveva gettato fra le fiamme del caminetto. Allora si accendeva il caminetto con legna vera nella sera, e si portavano scarpe sufficientemente pesanti per calpestare quel piccolo strumento di tortura.
Una spruzzatina di liquido infiammabile e poi con il fiammifero dal lungo stelo accese il fuoco.
A terra vicino al tavolo da lavoro vide il rettangolo biancastro del ponticello, lo raccolse e lo portò, tenendolo fra due dita, al catino e lo lasciò cadere fra le fiamme ancora alte e il fumo grigiastro basso.
Rientrata in casa, dopo aver chiuso le finestre, riempì d’acqua il bollitore. Squillò il telefono, un attimo di esitazione, “Buon giorno.”
“Buon giorno! Tutto bene? Dormito ...? Se hai bisogno ...”
“Bene, tutto bene; la vita continua ... non è così?”
“Passo da te?”
“No, grazie, Mary. Vado in centro a ... snebbiarmi un poco.”
“Sola soletta? Beh ci si può incontrare per un tè al centro.”
“Buona idea. Allo shopping? Tea-time!” Il finale è un trillo soffocato, dopotutto il funerale è stato ieri.
*
“Qualcosa che non va, Bizù?” La sala del ristorante è minuscola, con quasi tutti tavoli per due. “Questa ultima settimana hai avuto ... problemi.”
“Quattro giorni. S’è risolto ...” Sono seduti di fronte, l’uomo e la donna. Una bottiglia sul tavolo, le labbra della donna hanno lo stesso color rubino del vino nel calice che sta avvicinando alla bocca.
“Che è stato? Posso sapere ...? Top sicret!?”
“Parliamo dopo; dopo il caffè: non roviniamoci il paranzo ora.”
“Beh, cara, potresti almeno .... sei pensierosa, anzi, no, direi assente.”
“Assente ... “ Guarda l’uomo da sopra l’orlo del bicchiere;
“Un altro spostamento con lui ? “
Il sorriso le increspa appena le labbra nascoste dal bicchiere, “No, penso che andrò da sola questa volta.”
“Che? Dove? Perché? Ti vuoi spiegare?” L’uomo è irritato, eppur dovrebb’essere abituato da tempo alle reticenze della donna.
“Finiamo di mangiare, fammi il piacere; se ne parla poi. Con calma.” Con la calma che nemmeno la donna sembra avere, ma è una qual nascosta eccitazione, non nervosismo.
Sono usciti dal ristorantino, la fine del pranzo è stata silenziosa con scambi di occhiate tra il truce e l’interrogativo (lui) e il faceto e l’ingenuo (lei). È una pratica che ha imposto lei fin dal loro primo incontro, un’abitudine un po’ pazzerella nelle giornate invernali. Oggi l’aria è tiepida, c’è il sole.
“Le novità? Problemi con la casa, figli ...? Ti ha combinato qualcosa ...(fa un cenno con la testa)?” Tiene le mani nelle tasche dei calzoni, è lei che si tiene con una mano al braccio di lui.
“Combinato ... Che cosa mi ha combinato? Lui.” Non ha potuto far a meno di frenare la nota ironica nella voce. “Ha ... È morto.” Piatto, semplice, banale.
L’uomo sembra non aver compreso bene: “Morto?” E si ferma a guardarla, allibito.
*
Lei sorseggia il caffè, sono seduti all’aperto nel sole sbiadito, l’uomo sta fumando una sigaretta ed ha ordinato anche un bicchiere di digestivo alcolico. “Spero che ora ... Mi dai il numero di telefono?”
“Il mio?”
“No, quello della tua parrucchiera; che già sarebbe un contatto meno effimero di ... di ...” Prende il bicchiere e beve il poco rimasto, che gli va di traverso e tossisce, irritato.
“Tobi, lo so che non mi son spiegata bene, ma, vedi, cerca di capire che per me è finita; è così, non riesco a pensare a continuare ...”
“Ma come faccio a capire? Ci vediamo da più di cinque anni, tu sei superiservata perchè non si sappia, ed ora che tuo marito muore ..., io posso essere imbarazzato a non saper se porgerti le condoglianze o i rallegramenti, ma tu, tu ... ;scusa, ma ora non sei libera di fare ciò che ti pare?” La guarda smarrito, il bicchiere ripreso fra le dita.
Lei chiama il cameriere e ordina due cognac, poi si raddrizza nella sedia e pone le mani in grembo: veste una gonna ampia e lunga con il sottogonna. “Non ho nessun argomento che mi giustifichi, che dia una ragione al mio ..., a quello che sento, o meglio che non sento. Non ti ..., non ti ... Non voglio più vederti.” Allunga un braccio sul tavolino, quasi a voler toccare l’uomo; ma arriva il cameriere che posa i due bicchieri, il braccio si ritira. Ha un buon odore il cognac.
“Guarda che è morto tuo marito, non io; io sono qui uguale a prima.”
“Lo so, lo so; non ti sto rimproverando nulla, nulla. È la mia vita che è cambiata; questo lo capisci, vero? Non ho più ..., non sono più ... Mi sento libera, liberata, nuova; leggera. Sì, ecco, come un uccellino che finalmente può volare, che vola e non vuole gabbie e nessuno sulla groppa!”
“Grazie! Cin cin.” Esclama l’uomo prendendo un bicchiere e facendolo tintinnare contro l’altro; “Muore il caro maritino, e il benservito lo si dà a me, così, tanto per gradire.”
“Il sarcasmo aumenta solo il dolore. Se tu ancora mi ami, non capisco perché voglia farmi sentire in colpa e ferirmi, quando a me sembra di essere semplicemente onesta: non sento più nulla per te e voglio starmene per conto mio. E non è colpa di nessuno.”
“Fors’era meglio se tuo marito non moriva!” Negli occhi dell’uomo c’è uno sguardo patetico di sfida; poi abbassa il capo ed estrae una sigaretta dal pacchetto.
“No, non dire questo!” E gli occhi le si riempio di lacrime.
“Scusa.” Mormora l’uomo, allungando una mano verso la donna.
“Non è niente,” singhiozza la donna, “sono ... sono felice.”
*
Camminare nelle vie della città dove si concentrano i negozi è come essere nell’acqua con una ciambella di salvataggio che ti tiene sollevato e ti trasporta con la corrente. Non è necessario far compere, anzi è meglio astenersi se ci si vuol rilassare gironzolando e curiosando per le sale di esposizione o banalmente guardando la merce esposta nelle vetrine, senza nessun problema di scelta “comprare o non comprare” che minerebbe l’oblio della quotidianità in quel reale paese dei balocchi e profumi e accessori vari. Riflesso di bellezza e di vanità, una gioia per gli occhi e un diversivo piacevole per lo spirito. Consumismo? È un malanno endemico di stagione.
La donna si è fermata davanti ad alcune botteghe da dove esce un soporifero profumo d’incenso e si vedono esposte stoffe e monili multicolori, ed è rimasta con lo sguardo assente a osservare o a non vedere, il nulla & il tutto. Le vetrine riflettono la gente che va e tu con loro.
*
Ora del tè: roba da donne, ed infatti è quasi esclusivamente femminile la clientela della tea-room. Le chiacchiere soffuse creano un’atmosfera calda, accogliente. La donna guardò al polso l’orologio: era in ritardo; ragionevole. Si diresse verso l’angolo dalle grandi vetrate e Mary era già lì con una fetta enorme di torta che le nascondeva metà faccia. Sorrise con gli occhi.
“Scusa, ma mi son persa ...”
“Scusa tu, ma non ho resistito ed ho ordinato già il mio frutto proibito.” Diede un morso. “È la rinuncia a molte cose non comprate che mette appetito?”
“Non saprei, non sono una patita delle comprere, lo sai.” Sedette. “Cosa suggerisci ad una che non ha fame?”
“Da bere?” Mary diede una risatina, spruzzando molecole di torta. “Vai ad ispirarti al banco, ora non posso darti un suggerimento disinteressato.”
Ripulendo il terzo piattino di portata –“l’ultimo, lo giuro!”- Mary chiese: “Come ti senti?” E sollevò la tazza di tè quasi a nascondersi, per pudore.
“Bene.” La risposta arrivò laconica, con un’intonazione lieve e un movimento verso l’alto della testa.
“Bene? Bene. Se hai bisogno...” Mary era alleviata e un po’ sorpresa: l’amica lì di fronte a lei sembrava stare bene, non aveva nemmeno gli occhi arrossati, sembrava.
“Sì, grazie. Probabilmente per fare un po’ di pulizie: sai, c’è un bel popò di roba da buttare. Tutte le ... le cose ... sue.” Abbassò lo sguardo, per riempirsi la tazza di tè; aggiunse un goccio di latte.
“Hai già deciso ... che fare?” Non osava immaginare la risposta: conosceva l’amica dall’università, ma benché il suo comportamente fosse sempre coerente, non sempre le riusciva, al momento, di seguirne il filo logico.
“Non voglio tenere niente di lui. Pace all’anima sua e alle sue cose. Puoi prendere tutti i CD che vuoi; e anche ...” Bevve, e Mary non capì se la vaga espressione di disappunto fosse prodotta dal gusto del tè o dal pensiero degli effetti personali del marito da impacchettare e riciclare. “Da quel che ho capito tutto il materiale per orchestra lo prenderanno i suoi colleghi. Pagando.”
“Ah, ecco, perché i violini e alcuni vestiti costano parecchietto; regalarli, proprio no!” sospirò l’amica.
“Gli spartiti e il resto, beh, vedremo. Forse, chissà, lascio anche la casa.”
“No?!” Mary quasi gridò; si guardò intorno e abbasando la voce chiese: “Vai da tua figlia? Non era qui al ...”
“Non sarebbe cambiato molto per lui; e per i conoscenti c’è sempre una scusa, visto che abita anche lontano.” Guardò dentro la tazza vuota, completamente vuota ché il tè era in bustina. “Se fosse stato meno ... meno stupido!” Fissò l’amica con uno sguardo cattivo, ma fu un attimo. “Mediocrità che preferisce morire piuttosto che ammettere d’esserlo; ottuso tutto d’un pezzo. Un coglione!” Lo soffiò fuori, come una gatta infastidita.
“Debbie! Ok, calmati. Lo sappiamo, ed è andato, via, per sempre.” Mary le aveva stretto la mano che teneva la tazza, e cercava di parlare con voce suadente e bassa. Sapeva qual che bastava per condividere i sentimenti dell’amica; l’imbarazzava che si parlasse così d’una persona morta appena inumata.
“Scusa, scusami. Hai ragione: è finita, non c’è più. Però ...” Avvicinò una mano alla gola aggrappondo le dita allo scollo della camicetta.
Restarono in silenzio, l’una giocherellando con la tazza e l’altra becchettando minuscole briciole di dolce dai quattro piattini. “Vado a prendere un altro bricco di tè?” propose Mary.
“Solo tè, eh, Mary!” disse in un abbozzo di sorriso.
“Da quando in qua leggi nella mente, ragazza? Va bene, va bene.” S’alzò facendo svolazzare sul pavimento due tovagliolini di carta stampata a fiorellini.
Rimasta sola, la donna si guardò attorno: non tutte le facce avevano espressioni soddisfatte, lì ai tavoli. Qualcuna appariva più affamata o golosa di Mary, i bambini bevevano la bibita dai grandi bicchieri di cartone con sorsate interminabili, il volto dentro il bicchierone; anziani masticavano lenti e metodici la loro porzione di dolce e per lo più quelli che avevano finito si guardavano intorno come sperduti. Una coppia di giovanissimi succhiava, occhi negli occhi, un milk-shake, due cannucce colorate a testa. Era il solito banale scontato scenario di sempre. “Eccomi qua. A che stai pensando?” e depose la teiera di nickel sul tavolo.
“Che nulla cambia, eppure tutto cambia.” E guardò con occhi trasognati l’amica che non potè fare a meno di sghignazzare: “L’hai letta nel web questa superlativa perla di saggezza?”
“Può essere. Ti ricordi quella canzone ... Ma forse no, tu sei melodica, classicheggiante ...” prese la tazza in mano “Ma è vuota!”
“Cara la mia filosofa, il saggio orientale non ti ha insegnato che la tazza o è piena o è vuota e che in una tazza piena non si può aggiungere altro?”
“Il vuoto è quello che determina l’uso della tazza, vedi che mi ricordo? Ma sono certa che tu non ricordi (e si mise a canticchiare sottovoce): Non vogliamo ancora eroi, non abbiamo bisogno di altri eroi! Non più eroi! Eroi mai più!”
*
Silenzio; la casa è silenziosa, deliziosamente silenziosa; solamente il ticchettio della pendola, che non turba questo silenzio.
São Paulo, 4 dicembre 2012
GV
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