lunedì 17 dicembre 2012

La demo de i Bai

La demo de I Bai .




Giancarlo Varagnolo





“Nell’acqua caduto, il sasso fa sì

Che onde in cerchi concentrici

Si propaghino.”





Giornata di sole; non sarebbe neanche il caso di annotarlo visto che qui son le giornate di pioggia che mancano e che fanno la differenza: è una bella giornata quando piove.

Il mare è calmo e pigro come la vita che scorre qui sulla riva e in città. Anche le automobili, i taxi e gli autobus con tutto il loro sferragliare e brontolare e frastornanti ragli di clacson non riescono a simulare la presunta fretta di stravaccati conducenti. Ma la corrente petulante dei veicoli è solo nelle vie principali, qui sulla passeggiata in fronte mare s’incontra la sonnolenta tranquillità d’un sole ancora tepido. Ma ci son alberi, bassi perché giovani, che danno quel tanto di ombra nella canicola incipiente.

Il pescatore è seduto al limitare della riva circondato da reti da pesca; è chino in avanti e ne sta aggiustando le maglie rotte: lo indovino facilmente ché sono gli stessi gesti, lo stesso atteggiamento, la stessa postura del popolo di pescatori che ben conosco. Ecco lì: l’alluce del piede della gamba tesa che infilato in una maglia della rete la tiene stesa e in tiro.

Un cappello rovinato di paglia e una linguella artigianale sono gli unici indizi che potrebbero tradire la sua localizzazione ad un attento osservatore, se ne mostrassi la foto; per il resto, la maglietta ha una scritta in inglese, poco distante le onnipresenti ciabatte di materiale sintetico – solo i turisti ormai comprano e usano, ma finché sono qui in vacanza, i sandali artigianali di cuoio locali.

In piedi alle sue spalle, tanto vicino quanto me lo permette l’ammasso di rete, osservo un po’ lui e un po’ guardo il mare sulla cui superficie non scorgo né barche né navi né altro: vuoto fino all’orizzonte. Poi mi siedo: c’è una panchina lì presso, comoda per lo schienale di legno che mi trasmette il tepore del sole attraverso il tessuto della camicia. Il sudore ha già imperlato la mia fronte dove poggia il berretto. E apro il libro.

Non sono un solitario benché passi un bel po’ di tempo della giornata solo con me stesso, direi che è un appartarsi non un isolarsi; ecco, per esempio, ho scelto di sedermi qui perché c’è quest’uomo che sta lavorando, che è intento, preso, dalla sua attività; è una presenza: non sono solo, e scommetto che sono più io che guardo lui, che sono in qualche modo interessato e cooptato dai suoi movimenti, che non lui del mio essere qui seduto a leggiucchiare un romanzo. E quasi gli invidio la voluttuosa naturalezza con la quale adesso sta fumando una sigaretta con filtro – a me piacciono senza, e non all’alba !

Mentre sto leggendo con quel minimo di attenzione necessario, lasciando che una parte della mente vada surfando nella memoria, ecco che sento una melodia che il subconscio s’affretta a inquadrare, rimpolpare, attualizzare. Ma perché questo ricordo? Dov’è l’aggancio, la causa? Con lo sguardo perso nel vuoto, il libro tenuto sulle ginocchia alla don Abbondio, localizzo la provenienza del rimembrar: è il pescatore che rizzatosi in piedi controlla la rete e canta, canta in italiano. Niente di eccezionale: la musica italiana è uno dei prodotti di esportazione, ma non codesta canzone! E anche questa?

Il pescatore si siede, sta facendo nodi con lo spago aiutandosi con i denti, smette di cantare ma tirando l’orecchio posso udire che continua a canticchiare, humming più propriamente, come dicono gli inglesi. E non ho dubbi, non ci sono dubbi che quelle sono proprio esattamente le canzoni dei ragazzi ... Ossignor! Come si chiamava il gruppo? Miei coetanei, quindi è anche musica vecchiotta. Come ...?

Con lo sguardo smarrito e probabilmente con un’espressione inebetita, guardo verso l’aggiustatore di reti cercando di ricordare il nome del complesso, mentre tornano alla memoria le loro facce e le domande si moltiplicano perché ora non mi vengono in mente nemmeno i loro nomi: chitarra solista, quel piccolino ... ; alla batteria ... chi c’era? E ...?

Mi accorgo che il pescatore mi sta dando delle occhiate; fingo un’espressione di profondo pensamento, alzo gli occhi al cielo e poi li tuffo nel libro che ho prontamente aperto grazie al dito che vi stava infilato. Non che me ne importi molto di quel che può pensare l’uomo, ma mi crea imbarazzo l’essere colto in azioni che ritengo personali se non intime, come questa di pensare con lo sguardo che era fisso nel vuoto e non sul tipo. Che poi abbia potuto credere che fossi uno dei tanti porcaccioni omossessuali di turista, beh, ormai un uomo, ed ora anche le donne, si devo abituare alla valutazione sessuale dei residenti con tutto il casino, nel senso classico del temine, che gli occidentali hanno forzato a crearsi nel 3° mondo; è per questo che cerco di non apparire, di mischiarmi con gli ospitanti, di vestire come loro, cioè come sono loro nella strada e non nelle pubblicità, ma chiaramente un bianco con profilo greco classico ... ahahaha!

Per uno che non ha molto da fare essendo in vacanza, e compulsivamente curioso essendo fuori dal suo ambiente, è ovvio che l’aver sentito canticchiare non una ma più canzoni che credevo fossero a conoscenza di pochi, dà una bella pungolata alla mia sonnacchiosa e satolla curiosità. Quindi: prima fare mente locale, ossia cercare bene nei ricordi e avere le idee chiare ... Chiedere a chi per posta elettronica? Nah, che non vado a perdere tempo e pazienza in un punto web pubblico! Poi ... si chiede direttamente al tipo qui... Vuoi vedere che è italiano? Così lo guardo con un occhio solo nella posizione classicheggiante del pensatore di ... (Hodddio-dio, un altro nome che non mi viene! Oggi non è giornata.)

Mi alzo seccato con me stesso di questa lentezza di pesca nella mia memoria; non è l’età: è che non avendo contati con alcuni ambienti e personaggi, non si rinnovano i legami con il passato. Di solito camminare mi aiuta ad attivare meglio il cervello, non so quale connessione ci sia fra gambe e materia grigia della mia cocurbitacea, ma funziona. Mi fermo all’ombra d’uno striminzito alberello e con la costa del libro appoggiata al mento, quasi fosse un microfono, canticchio ad occhi socchiusi, vedendo la distesa del mare e guardando nella memoria. “La mia lingua si muove invano ... Non hai più nulla da imparare, Monique, e una sola tua parola vale tutti i miei pensieri.” Non ricordo tutte le parole, ma il giro di chitarra si snoda bello pulito armoico nella mente “Tatatatatà ta ta ta” con eco finale e un po’ di slide ad ogni ripetizione: sublime! Come si chiamava il solista? Era fratello della chitarra accompagnamento ..., grazie! Se è per questo ricordo il nome di una delle loro sorelle proprio perché ha il nome simile al mio, ma non è che aiuti molto. Che rabbia: vedere i volto di tutti e ...cinque, sì cinque, gruppo classico con cantente, e non ricordare un solo nome!

“Io forse non sono che attimi perduti nel sole di sempre. Io forse ... foglie marceeeee.” Con suono ampio ritmato lento ma forte di chitarra. E poi ...? Poi ci sono tutte le cover inglesi, ma poiché era repertoria condiviso da tutti i gruppi rock-beat dell’epoca ... Ecco la batteria! “Nella selva dei miei pensieri” turutum turutum turuttum “... i tamburi chiamando ...” Il batterista era uno spilungone magrino e calmo, “turutum turutum”.

Erano loro sul palco al lato del canale? Vestiti come? Estate ... Mi venissero queste urgenze conoscitive quando sono a casa, sarebbe facile trovare indicazioni con un paio di telefonate, ma qui “fuori dal mondo, ihù”, citando un’altra canzone d’epoca. Epoca! Buffo come alcuni periodi della propria esistenza si contino in anni, altri in mesi, e poi, ad essere ottimisti, in quinquenni o, facendoci aiutare dai mass media, in decenni – che sono sempre favolosi punto esclamativo ovvero urletto di gioia del presentatore radiotelevisivo; così aiutàti dalla memoria altrui, che il più delle volte è di ragazzotti non ancora nati nel favoloso! periodo che con nostalgia rituale riesumano, noi pensiamo che se era in quel momento, la musica i balli i divi le canzoni erano quelli, ma in verità non si ricorda nulla. Ora ad esempio mi vedo in un folto gruppo di persone, stiamo ballando, è estate, dev’essere una sagra o la festa di un qualche partito politico, ci muoviamo esagitati, ovvero balliamo necessariamente un hully gully oppure indubbiamente lo shake, ma non odo alcun suono eppure sono sicuro che sul palco alle mie spalle c’è il complesso musicale ... sì, quello delle canzoni che cantava poc’anzi il pescatore alle reti! I Black Angels ? Può essere ? Gli Antisbarco ... sono venuti poi, la decade, yeah!, successiva.

E mi son perso il rammendadore: non è più dove l’ho lasciato, ma le reti sono state riammassate e quindi dovrebbe ritornare a prenderle; mai perdere l’attimo, l’occasione. Non è la prima volta che mi sfugge fra le dita un’opportunità banalmente perché ho rimandato di qualche minuto come la serie di flauti in legno in un charity shop di Oxford. Tanto vale che mi segga sulla panchina e continui a leggere; il romanzo non è gran cosa, ma mi diletto a leggere pubblicazioni incontrate per caso, come questo romanzo che è della biblioteca dell’albergo. È un’ottima abitudine uscire a passeggiare con un libro in tasca perché ti dà la possibilità di fermarti in un posto qualsiasi e per un tempo prolungato a piacere senza che nessuno ti noti, ti importuni e né tu stesso t’annoi. Un attira scocciatori è la sigaretta fra le dita, meglio desistere in pubblico come qui ora, o scegliere un tavolino centrale di cafeteria. Ritornerà il tipo?!

E per poco non me lo perdo di nuovo, preso com’ero dal libro e dagli svolazzi mentali a cui m’avevano sospinto alcune descrizioni; incontri sempre una frase o una parola o un nonnulla che rimanda ad altro in un concatenarsi senza fine per la magia segno-referente-ricordo. E per poco non mi dimentico ...

Mi alzo, cioè non subito ché sono con la testa fra le nuvole e lo sguardo perso, anche perché sono miope e devo inforcare gli occhiali per mettere a fuoco il mondo. Il pescatore sta parlando con un uomo più anziano, tarchiato. Mi rivolgo a loro direttamente in italiano, non capiscono, ripeto: “Il pesce dov’è? Quando andate a pescare?”, cercando di dare un’inflessione locale alla pronuncia. Sorridono: “Italiano?” “Sì; ma tu non parli italiano?” Lo ripeto nella loro lingua; negano entrambi. “Ma tu cantavi canzoni in italiano poco fa.” Si guardano stupiti, così io accenno: “.. non hai più nulla da imparare, Monique ..”. Ridono entrambi; “È la cassetta del vecchio Luís.”, “Tape, Luís.” “Sei tu Luís?” “No, è un vecchio; old; dead.” “Italiano?” “No, no.”

Andiamo a bere una birra; fumo anche una sigaretta che l’uomo tarchiato mi offre: è di tabacco scuro, forte e, meraviglia o meglio fantastico!, senza filtro come ai bei tempi. La storia è questa: l’anziano pescatore era a contatto con i turisti perché li portava con la sua barca a far immersioni; ovviamente molti oggetti dei giovani vacanzieri gli venivano regalati, come la cassetta, anzi l’aveva trovata dentro il piccolo registratore-radio a batterie che gli avevano lasciato, così lo portava sempre con sé ed ascoltava per lo più quella cassetta, quella musica che tutti i suoi amici e conoscenti avevano memorizzato. Quanto tempo era passato? Molto; troppo per sperare di rintracciare i proprietari della cassetta che avevano viaggiato fin lì. Compaesani o amici di amici di amici?

Mangio qualcosa per poter continuare a tener compagnia ai due che bevono birra come fosse tè, e poi si comincia a cantare prima in italiano, canzoni vecchissime di cui io non ricordo le parole che indovino nella pronuncia distorta (un po’ come le nostre nonne a cantare inni e salmi in latino) talvolta volutamente per ricavarne un doppio senso come mi spiegano, o mi chiedono di tradurre espressioni di cui non conoscono il significato ma che hanno un bel suono al loro orecchio. Su alcune parole o gruppi non c’è verso che ci capisca qualcosa, anche perché mischiano le lingue e le confondono. Così il pescatore chiama un ragazzino e lo manda a casa sua a prendere delle musicassette, qui nel minuscolo bar c’è pronto un enorme portatile magianastri e lettore CD, di quelli a muso di vespa, con gli altoparlanti che sembrano due occhi enormi, quasi due oblò.

Ed eccola finalmente qui la cassetta; è una demo: contiene solo 6 composizioni, che è comunque già un bel po’. Una non me la ricordavo proprio, ma è un haiku che dà il pretesto per un quasi 4’ di pura musica. Il testo, cortissimo, viene detto due volte a voce bassa ed inespressiva lasciando lo sviluppo emotivo alla musica (è l’unica con piano elettrico di appoggio). Non mi è facile spiegare il senso e il significato in una lingua che conosco poco, ma alla fine sembra che almeno il giovane abbia compreso, “il bacio che mi hai dato lo sento ora sulle mie labbra ricordandoti”.

Fiammiferi o Scatola di fiammiferi non piace né a me ne a loro, è una ballata saputella che mischia la Piccola fiammiferaia con piromani più o meno rivoluzionari, filastrocche d’altri tempi, da cantare dopo mezzanotte e a vino terminato. Essendo l’ultima di quella che dev’essere la facciata B, penso abbia compromosso il punteggio globale perché è, almeno a risentirla qui e ora, tediosa e sentenziosa. Piaciuta l’immagine di “selva di pensieri”, e credo che qui abbiano una metafora simile per indicare un intrico di suggestioni nella mente o un mucchio di rogne da risolvere. Monique, la 1^ del lato A, ha vinto la hit parade per i suoi saliscendi armonici e l’assolo di chitarra che m’ero ricordato subito anch’io, senza contare che un nome di donna ripetuto (non vado certo a rivelar loro che è una tredicenne, “Monique, nella tua tredicesima estate non hai più nulla da imparare”, benché non si parli per niente di sesso ma di saggia conoscenza, suppongo, visto che “una tua parola vale tutti i miei pensieri”).

La 2^ della A è stata sorvolata (il testo non è male, piuttosto esistenzialista, e nemmeno altre due birre riuscirebbero a darmi il lessico, meglio, la parlantina per spiegare: “io forse non sono che attimi perduti nel sole di sempre, ... io forse ... parole nere nella neve ...”); grande favorita invece la 2^della facciata B, Pattume che avendo parecchie espressioni non proprio in lungua era stata capita solo a metà (“ricordati che il mondo è la tua casa, ... allora tu fai qualcosa ...”), ma è cantata con entusiasmo perché è piena di quel ritmo sincopato che ti muove al ballo; il libro che ho con me si dimostra un passabile strumento di percussione. La cosa buffa è che non conscendo il significato di pattume, cioè immondizia, nel finale un-tà, invece di gridare: “Pattume? Basta!” veniva fuori un “pasta!” con tanto di applauso e gesti indicanti mangiare.

La cassetta non ha alcuna indicazione di fabbrica, è nera con la finestrella centrale trasparente per vedere l’avvolgimento del nastro; il sole, l’acqua, il sudore, la salsedine ne hanno sbiadito, scollato, liso, strappato, raschiato le etichette incollate sulle due facciate; ma in questo mio guardare le indicazioni perdute, polverizzate, le testine con taglio a croce delle cinque viti con segni di ruggine, mi ricordo improvvisamente un’altra compact cassette aperta, il nastro srotolato per metri, le viti cadute a terra e introvabili: “Che bao! Sei proprio un bao.” Ed è il mingherlino giovanissimo chitarrista a dirlo al tarchiato bassista dalle dita a salsicciotto che si è lasciato sfuggire di mano il cacciavite e la cassetta già aperta.

I Bai, non so se fosse nato così il nome del complessino musicale, comunque c’erano già altri uccelli in circolazione nell’orizzonte dei gruppi pop-rock: corvi, aquile, albatros, passeri, falchi, condors, gufi, uccelli-da-cortile e semplicemente uccelli, per cui dei gabbiani ci stavano benissimo, anche se nel termine dialettale bai; il che era un po’ ridicolo, ma se vogliamo anche “provocatorio” considerando che “essere un bao” equivale ad essere un pollo o un’oca, cioè uno sciocco. Porzione di memoria riacquistata; ma ora è meglio andare o perdo il presente per la troppa birra.

Vada per l’ultimo giro! Canticchiamo ancora una o due motivi, poi esco assicurando tutti che ci rivedremo domani o dopodomani o ...

Ho rifiutato di prendere la cassetta che il pescatore voleva regalarmi inventando la scusa che l’avevo già a casa, anzi avevo il CD del gruppo, pensa un po’ te!

Adesso cammino aggrappandomi al libro per non perdere la diritta via, non nel senso figurato, ma in quello reale. Fa caldo, una doccia ci vuole, ma niente aria condizionata, please. Le sonorità de I Bai mi rimbombano in testa, esattamente, perché per far onore all’amico italiano hanno messo il volume del registratore al massimo.

Non c’è selva, non ci sono pensieri, solo i tamburi che rullano e Monique nel sole come lo sono io, e forse a casa sta cadendo la neve così da coprire le parole nere. Nere? Eh! Che bao!

E mi vien da ridere e sto ridendo poiché vedo solo ora il comico del saluto scambiato poc’anzi: “Bye bye!”, bai bai, grullo grullo, ciuco ciuco ...

Nel sole, nessun gabbiano all’orizzonte.






Nota: Oltre a bao, pl. bai, esiste anche il termine crocale/i, che al femminile diventa vezzeggiativo crocaleta/e, per indicare i gabbiani.


São Paulo, 29 novembre 2012

GV

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