lunedì 17 dicembre 2012

Emilia del 16° piano

Emilia del 16° piano


Giancarlo Varagnolo







Emilia Pisellino all’altro lato della via, ma quale via? se è un edificio lontano forse un km, alto nel cielo e può essere che sia più in su o in giù delmio diciannovesimo piano! Però, comunque, Emilia è lì sul poggiolo con le spalle contro i vetri della porta, per non bagnarsi con la piogga fine che sta cadendo; fuma pensosa e forse nervosa laprima sigaretta della giornata. Guarda il cielo senza vederlo, tanto è un grigio perlaceo che non propone niente all’immaginazione.

Anche se avesse un giardino – supponendo che il suo minuscolo appartamento non fosse alto nel cielo ma allivello del suolo – non potrebbe andarci a passeggiare o sedervici, non solo per puffare la sigaretta e tanto meno per tenere sulle ginocchia il computer.

Emilia Pisellino, schiacciato ilmozzicone di sigaretta nell’ampio posacenere – che altro non è che una ciotola di metallo scurito dal tempo – etra e lenta va verso il riquadro luminoso del pc che sta mostrando immagini con o senza lei a intervalli di 10”. Che fare adesso che la posta è stata visionata, che le frasi delle amiche e amici virtuali sono state lette, che le sue canzon preferite, del momento, sonostate asccoltate? Un altro goccio di caffè o un pezzettino di cioccolato per togliere il gusto amarognolo lasciatole in bocca dalfumo della sigaretta?

Nessuno o sa: non io, dirimpettaio del 19° piano, troppo lontano per sentire la sua voce, figuriamoci leggerne i pensieri!, né lei, che non sta pensando, ovvero è ntasata di pensieri che le fluttuano nella testa come panni nella lavatrice nella funzione risciacquo; e nemmeno i tarocchi he sono chiusi nella loro scatola di cartone.

Emilia siede e disattiva la sequenza; scriverà un’altra serie di parole che formeranno un contorto pensiero alla fine, parola dopo parola, spezzone di frase con altro spezzone; la chiameremo poesia, benché sia un racconto minimalista di quel che le passa per la testa, e il petto e lo stomaco e ... e ...

Io, dall’altro lato dell’orizzonte, passo in rassegna le finestre dell’edificio dove dimora Emilia, e così, lo sapevo, mi perdo di nuovo nell’intelaiature tutte uguali, identiche, non personalizzate, o forse lo sono, ma da qui le differenze non si notano, seppur ci sono, è nitida unicamente la struttura, l’architettura del complesso; se lei guardasse qui vedrebbe il cuore di velluto attaccato con una ventosa alla mia porta-finestra? E la piccola campana a vento con i cinque tubicini arrugginiti? Neanche a penare che ne senta il suono.

Ho perduto il punto di riferimento, come Emilia che ora corregge le imperfezioni della sua composizione che, è sincera, non ha moltosenso maqualcosa comunque le comunica – ma che cosa voleva dire? Ma, voleva dire qualcosa? E se sì, a chi? A se stessa, o all’altra se stessa, o a una qualsiasi altra non dissimile da sè? Che consistenza hanno quelle parle, quelle proposizioni, quello scritto? Nessuna. Non dico del contenuto, no, mi riferisco a quel suo essere digitato lì sullo schermo, senza peso, senza corpo, senza concretezza – voglio dire che è quasi come se fosse scritto nella sabbia, o ... Non saprei, mamanca di proprietà, unicità, realtà; non del detto, main sè: non è una reificazione autonoma!

Emilia lo rimaneggia graficamenteelo inserisce nel suo blog. Non sono mai entrato nel suo blog, non ho mai visitato il suo social-net, non ... non la conosco, ecco; è la mia dirimpettaia, meramente questo.

Ora lei sta rileggendo vecchi post, le piace rileggersi, verosimilmente perché vi si riconosce parzialmente: ecco, alcune cose sono proprio sue assolutamente, altre: da dove le sono saltate fuori? E così talvolta si compiace, talaltra si meraviglia, altra ancora sorride dandosi della rincitrullita. È tutto lì nella rete, ogni suo scritto che tutti e nessuno possono vedere e leggere. Tutti, ma io sono il nessuno, suo dirimpettaio, del 19° piano.

Non scrive, Emilia, in un quadernocon lapenna a sfera; non scarabocchia con i pennarelli né incolla ritagli di giornale in un suo diario; non lascia svolazzi a matita in fogli, foglietti o stickers; no, non scrive impugnando qualcosa, non mostra abilità di tracciaresegni manualmente, no. Emilia scrive nel nulla di nulla con la punta d’un dito o due, poi tutto scompare (sfiorando con il polpastrello) e nulla rimane sul tavolo se non il riquadro antracite dello schermo, no, nemmeno quelo, chiuso il coperchio. Che odore ha un messaggio elettronico? Che consistenza tattile? Che indizi contiene del suomittente? Il tutto è così meccanico, neutro, amorfo; con copia & incolla lo scritto di Alfa Beto mi può giungere nell’originale copia manoscritta, e il più delle volte non è una scelta dovuta a ricerca, ma una casualità, incontrata in uno dei mille siti di bei pensieri edificanti.

Ma a questo, Emilia, ci pensa? Anche la pioggia va perdendo la sua fisionomia completa: da qui, al 19°, gocce sui vetri con suono nullo se non un ticchettare da macchine-da-scrivere in direttura d’arrivo se c’è una sferzata di vento; e i passanti? e le pozzanghere con le bolle formate da gocce battenti? e gli schizzi delle automobili in corsa sui rigagnoli? e i riflessi delle luci sull’asfalto bagnato? Pioggia, ed è vetri con minuscoli frammenti d’acqua su sfondo grigio, null’altro. Grigio che evidenzia i riquadri di finestre di stanze con luci accese. Accendere e spegnere, accendere e spegnere: potrebbe essere un segnale. Potrebbe? Certo; ma di che? Qualcuno lascia tutte le luci accese, altri sono metodici: click in / click out, e queli delle luci spente – per non vedersi e non vedere? per chiudere e rinchiudersi? L’infantile serrare le palpebre per non essere visti dagli altri.

Non che lo sguardo serva molto se non si conoscono i segni, il codice, la langue. Però il referente di Emilia è binario, in una lista che non è una scala di valori (costi? prezzi? ahahah), nemmeno una rete (e meno che mai tela), ma un percorso obbligato dove non c’è scelta ma una possibilità (oggettiva, fattuale, immediata) su due: la porta o è aperta o è chiusa, la risposta è stata data o no: ha ancora sigarette? Sì/no. Piove? Sì. Ancora? “Domanda non pertinente: presuppone conoscenze temporali. Adesso piove. Per giungere a formulare l’affermazione di continuità, verificare le ipotesi che 1 e 2 e 3 ... 20 minuti fa stesse piovendo.”

Emilia sta ascoltando musica guardando il filmato, o guarda il filmato per ascoltare la musica? Non è un paradosso da filosofia del linguaggio, bensì un’attitudine che condiziona la scelta (si fa per dire) del fruitore e direzione verso il percorso A oppure B, con risultati ...

Ma dagli enormi tappi che nascondono completamente i padiglioni (sic!) auricolari, si deduce – elementare, figliuolo! – che c’è un atteggiamento di isolamento. Anche volendo, anche desiderando, anche cercando di udire la sua musica, non potrei, m’è negata la compartecipazione, la condivisione, la comunione. Lo so che Emila è sola nel suo appartamento al 16° (o 19°? non so, la base dell’edificio è nascosta e la prospettiva ... come si fa? con un raggio laser? Buona idea ...) piano, però questo non significa, anzi, per me aggrava, quest’egotistico serrarsi nel conseguimento d’un piacere. O è una fuga? L’allontanarsi dalla solitudine, dalla pioggia, dalla noia, dal grigiore lì fuori e qui dentro , interiore?

Io guardo, ma non vedo; vedo, ma non posso formulare ipotesi consultando le istruzioni d’uso dei miei tarocch taroccati, miei e quindi, idest, obsoleti e/o personalissimissimi; buoni per costruire un castell di carte, instabile, fragile, inutile come oggetto nella sua precarietà, ma valido per la sfida costruttiva, non il risultato. Impilare frasi fatte nel personale sito web forse è lo stesso: giorno dopo giorno si marca il vuoto con un frego di parole rubate che comunicano meno di un buon-giorno detto nel tardo pomeriggio.

Emilia è tornata sul poggiolo, si muove , gesticola con il telefonino all’orecchio e una sigaretta nell’altra mano; parla, chiacchiera, forse comunica.

Un aereoplano di carta, di quel appuntiti, arriverebbe fino a lei con il messaggio scritto fra lepieghe? Se non povesse, si potrebbe tentare; tentar non nuoce.







São Paulo, 9 novembre 2012.

gv





Nota: Scritto in un seminterrato; buffo, no?!



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