LA MUNEGA MATA.
Giancarlo Varagnolo
[si deve vedere solo il viso, ma non necessariamente a causa del soggolo]
Bene. Ora posso parlare, finalmente, senza timore che qualcuno mi interrompa, ridendo di me o peggio. Nessuno può farmi fuggire, ora; nessuno può insultarmi; nessuno può tirarmi dietro torsoli di cavolo o colpirmi con zolle di terra arse dal sole. Nessuno di voi ch'io vedo e posso, io, ora spiare, ghermire, far sussultare come voi facevate. Voi tutti poiché non è colpevole meramente la mano che colpisce o la bocca da cui proviene l'ingiuria, l'offesa, ma chi ne gode, sghignazza e ride. Ma maggior peccato lo compie chi fa finta di non vedere e s'astiene - gli ignavi, gli inetti, i vili. E nell'imo chi vedendo, sentendo, sapendo e talora potendo, nulla dice e fa perché lo scempio, la tortura, la cattiveria, la beffa cessi. Posso spiarvi, ho detto, ma mi correggo: potrei, cioè ho la possibilità di "ficcare il naso", come banalmente vi esprimete voi, nei vostri momenti segreti, nei posti dove vi credete sicuri, salvi da occhi indiscreti. Potrei, questo è una recente nuova acquisizione, leggervi dentro, léggere nel vostro cuore, vedere i vostri pensieri. Come ci si sente ad essere braccati, come io ero? Come ci si sente in balia dell'umore di uno molto più forte di voi? Paura, angoscia; terrore. Stato confusionale; monomania; psicosi persecutoria. Follia. La "munega mata" così ero per voi, quando vivevo fra voi, nei miasmi del vostro mondo.. Sarebbe da applicare la biblica legge del taglione "occhio per occhio, ...", ma sono monaca cristiana ed ora che l'adrenalina dello stato ansiogeno di bestia braccata - per voi non ero un essere umano, nevvero? - s'è disperso, posso con serenità perdonare a voi che non sapevate quello che facevate, il perché lo facevate, come Qualcuno fece prima di me. E poi del vostro mondo, delle vostre beghe, delle vostre passioni, dei vostri rancori, delle vostre illusioni e tormenti banali già mi staccai ancor prima che voi mi dichiaraste, vox polpulis, matta. Dove sono ... So che vorreste sapere dove sono, ora. Ma se mi avete reputata pazza fino a questo momento, che cosa mai v'indurrebbe a credere che non sto dicendo altre corbellerie, grullerie, boiate, insulsaggini risibili? Perché uso un parlare forbito da rétore, e termini da sapiente, e .... E invece prima ....Ecco la vostra ignoranza , frutto dell'intolleranza, dell'arroganza e, guardate dentro voi stessi, della paura. Voi non volevate ascoltarmi, non ch'io avessi molto desiderio di parlare a tutti voi. Voi non volevate ammettere che qualcuno dicesse cose diverse dal vostro confabulare, avevate paura che il vostro mondo crollasse. Avevate ... avete ora, e sempre, oggi e domani e domani. Perdonatemi, non voglio ricordarvi la vostra paura globale - sì, perché ne avete di paure: piccole, medie, grandi, parcellizzate, micromega. Non sono qui per spaventare alcuno, ma semplicemente, banalmente, per fare una chiacchierata, anzi, toh, che vi concedo - sono buona, neh, ma non santa [risatina] - uno sproloquio o vaniloquio o soliloquio, chiamatelo come volete, comunque senza interruzzioni. Perché io avrei voluto parlare e dire le cose anche a voi. Sì, perché le ho dette e ripetute, oh, quanto ho chiacchierato con la luna, e gli insetti, e le foglie e i fiori, e come loro parlavano a me come i cocci di piatti o fornelli in terracotta di pipe annerite dal fumo; e i sassi lisci lisci, caldi nel sole da appoggiare alla guancia. Le lucertole nell'estate, la farinosa brina nell'inverno che ti pizzica la punta delle dita. Il vento è un po' brontolone e le rondini all'imbrunire creano un bel po' di interferenza parlando tutte insieme intrecciando voli e messaggi. Oh, se parlavo; e come mi capivano. Ero "matta" per questo, no? Noi, voi ed io, non ci comprendavamo; voi non volevate comunicare, le vostre parole erano tuoni, boati, sassi verbali lanciati per allontanarmi, ed io imparavo a tacere perché le parole che conoscevo, poca cosa, non erano da voi nemmeno intese. A me piace parlare, emettere suoni, modulare la voce, sentire echeggiare nel silenzio, che non è mai tale, le mie lallazioni; e cantavo, più fonemi che parole, più melodia che frasi, non perché non sapessi che dire, ma perché già il canto è gioia, allegria, spensieratezza, che mai aggiungere in più? Talvolta era una nenia triste per dare conforto ad una lucertola schiacciata dalla ruota di un carro, o un passerotto morto per il freddo, o il gabbiano abbattuto da un sasso; e i cani ulcerosi, piagati, cimurrosi che venivano a cercare fra i campi un posto ove morire, almeno morire in pace. Ah, ma c'erano le farfalle da inseguire, le tele di ragno da ammirare, le more sul finire dell'estate e i denti-di-leone! Soffi e pfff i semini volano nell'aria come goccioline di pioggia esitanti nel procedere. Pufff, prendono vita autonoma queste piccole creature nello spazio dorato dal sole. Che divertimento! Talvolta mi rincresceva strappare il fiore dalla pianta, mi sentivo un pochino in colpa per recidere così la loro esistenza, ma è cosi esaltante vederli volare tutti insieme improvvisamente! E poi, prima o poi ... Il bello più bello è l’attimo eccitante che sei lì lì per soffiare e ... soffi! E volano, si disperdono, nel sole. Quando piove ... bisogna trovare um posto per essere bem riparati e stare all’asciutto, poi: è bella anche la pioggia. E i temporali com i loro tuoni lampi saette. [conta sulle dita] Uno, due, ter, quattro ... creak-bum! Non abbastanza distante, ma nemmeno troppo vicino. Non che sapessi contare, allora, ma era come um toccare, mentale, um fiore dopo l’altro, o mangiare uma mora dopo l’altra, o far muovere le dita una dopo l’altra a toccarsi o premere sul pollice. Imparai a schioccarle anche, cosi [esegue], destra, sinistra, destra destra, sinistra sinistra [altre variazioni]; e sulle guance, cosi, ma piano, perché altrimentifa male e lascia tutto un segno rosso qui. O viola. Donne che piangevano accasciate fra le stoppie, sole, disperate, non che sapessi la parola, il perché, che fosse, ma guardandole di nascosto e sentendo i loro singhiozzi, venivano anche a me le lacrime agli occhi e um tramestio nel petto. Avrei fatto qualcosa, avrei voluto fare qualcosa perché lei ed io non piangessimo, ma dovevo restarmene muta e lontana, non vista, per non farle fuggire: avevano paura di me quasi fossi uma bestia feroce, un lupo o un biscio repellente e non una donna come loro, maltrattata quanto e più di loro. Ero la matta da cui non poteva venire che male, mentre dai savi mariti, padri, figli, amanti ... Dal disgusto ero io a correre lontano quando m’imbattevo nel viluppo della coppia fornicanti o ne udivo le voci, le grida, i gemiti di quella che io prima pensava
una lotta e poi non chiaramente, confusa, apprendei ch'era l'unirsi dei generi come i cani latranti nella stagione dell'accoppiamento, e i gatti dai miagolii stridenti, e le anatre sguazzanti a pelo d'acqua ... E uomini con uomini vidi, ed ora so che è peccato contronatura. Ora so della vostra lascivia, della vostra lussuria, delle vostre foie, delle vostre brame e invidie; dei vostri peccati. Ora so dell'immondo che si cela in voi che come vermi esce dal vostro corpo quando quel poco di spirito che è in voi vi lascia, e carogne brulicanti d'altra vita, come vidi, marciscenti nei campi. Ora so, e questa conoscenza duole e pesa, rattrista e infastidisce, condanna e commisera. Così lontani da me, dal mio cuore, i mali del Mondo erano allora, candida ingenua assopita "munega mata", allontanata e preclusa - per quali colpe? - alle miserie della comunità umana. Non fu la mia omissione, non fu fuga, non fu rinuncia né ignavia. Capro espiatorio cacciato a sassate concrete, contundenti, fuori dalla città, prima ancora che discernessi il male dal bene o, meglio, poiché non m'era dato di vedere il Maligno, la malvagità, l'ipocrisia, la bruttura del vostro vivere quotidiano. Vostro? Divenne anche il mio: di riflesso, per contiguità, per contaminazione. La paura, che domina il mondo, che sovrasta la vostra vita, che pregiudica i vostri rapporti; la paura che vi rende agressivi, vigliaccamente arroganti, presuntuosi diffidenti, e sempre, sempre insicuri di tutti voi stessi, gli altri, l'oggi e il domani. Paura di morire e talora di vivere; paura che diventa sottomissione, rasseganzione, atonia; cecità e sordità; morte prima della morte. La paura che è in voi, questo lezzo prettamente umano, me l'avete fatto conoscere voi, l'ho inalato e ho dovuto fuggire perché il dolore è cosa viva, reale, presente, innegabile e lo si può sopportare fino a morire, ma io volevo vivere perché avevo diritto alla vita, alla mia vita. Certo, allora non sapevo di tutto questo, ma era in me la sapienza, e la volontà di continuare ad essere io, me-stessa, sulla Terra. "Io", "me-stessa": questo lo posso dire ora, non che prima fossi un'altra, ma avevo conoscenza che questa era la mia mano, questa la mia spalla; non credo di aver mai pensato a me come un tutto, anzi posso dire di non aver nemmeno pensato se pensare significa elaborare frasi, comporle in idee, trarre conclusioni e servirsene argomentando. Era bello avere pensieri come nubi che cambiavano di forma e posizione ed attrattiva senza lacun presupposto o volontà. Se si pensa poco, se proprio non si usa l'elucubrazione ma i fatti, gli accadimenti, il dato si accettano così come sono, si arriva ad un accomodamento del comportamento in funzione di quella realtà più o meno nuova, recentemente sperimentata, ritenendo l'esperienza ma non le inferenze emotive. Ups. Mi sa che qualcuno ora penserà che sono definitivamente, ineccepibilmemte, completamente matta, o comunque molto più matta di prima. La persona diciamo così "sana" che fa, per esempio, nel caso le tirino una pietra? Già mentre la vede arrivare e prima ancora di schivarla si chiede:"A me? Perché? Da chi?", e ovviamente un'esclamazione più o meno colorita in relazione a status sociale, culturale, economico e geografico. "Sorbole! Piovono sassi." non denota la stessa personalità di "A li mortacci!...". Voi mi tiravate i sassi, e io vi guardavo senza chiedermi perché, meramente cercando di capire che stava accadendo, di legare consequenzialmente le azioni. Tutti apprendono in questo modo. Così imparai, sulla mia pelle, a prevedere tutta la concatenazione di gesti che si sarebbe conclusa con il lancio di una pietra o un insulto, quindi allontanarsi il più possibile e in fretta. Voi vi chiedete perché il fuoco brucia o perché la pioggia vi bagna e perché cada in quel momento? State alla larga dalle fiamme e al più, per la pioggia, cercate di interpretare i segni nel cielo. Non mi chiedevo la ragione, neanche quando erano ragazzini a venire in cerca di me per importunarmi. Erano i piccoli figli dell'Uomo che venivano anche loro, come i padri, a sfogare il proprio rancore di essere vivi, di aver dovuto sopportare, lottare, inghiottire amaro, logorarsi in un'altra giornata. La rabbia in corpo dell'insoddisfazione, il tarlo della rivalsa; scimmiottavano pedissequamente il fare degli adulti. È così che si creano le abitudini dei popoli; è così che si lega il popolo con il medesimo abominio e le condivise efferatezze. Guardavo, all'inizio, e non capivo, cioè mi metteva a disagio quel loro picchiarsi a sangue tra di loro, fino a piangere o rimanere inerti al suolo o riandare zoppicando o curvi e laceri. Perché tanta crudeltà? perché tanto rancore? perché tanta violenza? perché tanto spregio? Angariavano cani, martirizzavano rane, annegavano gatti, crocefiggevano gabbiani, bruciavano pipistrelli, poi, grandi, avrebbero applaudito alle impiccagioni, maltrattato le mogli, picchiato i figli e ucciso sconosciuti non appena fosse stato loro legalmente ordinato e permesso. Ed io passavo giornate intere, dimenticandomi di mangiare, e talvolta di fare pipì, presa com'erro, felice nel guardare i mici rincorrersi e giocare, i piccoli giovani cani che fingevano di mordersi facendo la voce rauca; che salti, che guizzi, che capitomboli e rotolamenti fra l'erba, e qualche zampata delle madri infastidite quando venivano coinvolte, loro malgrado, per caso, nelle zuffe. Non sangue, non ferite, non tumefazioni, non rancori. Qualche uccello, sì, ci lasciava le penne, come si suol dire, ma era cibo e non vittima sacrificale di indemoniati figli di Adamo. Anch'io, d'altronde, mangiavo gallina, e pezzetti di carne di bue, e maiale e capretto e qualche pesce e le cozze. Mangiavo quando capitava, e quando diventai "munega". Era ovvio, logico, che fossi accolta in una comunità religiosa, sia per salvare la mia anima sia, e forse più, per salvare il mio corpo: qualcuno avrebbe approfittato di me, mi avrebbe violentata in un momento di foia accresciuta dal vino o in una scorribanda fatta per scommessa, per giuoco di giovani scioperati che in alcuni luoghi non rispettavano nemmeno i conventi ed erano coperti dall'impunità del denaro o della nobiltà. Con il denaro comprate tutto, credete di poter ottenere tutto, invece più avete e più vi allontanate dalla felicità, vi costruite una prigione, non sempre confortevole, dove languite soli e svuotati d'ogni tenerezza. Anche fra le monache ce n'erano parecchie di tal fatta: altere, mestatrici, avide ... Non che lo sapessi, allora, ma capii istintivamente che anche lì c'erano persone da evitare. E fui per tutta la mia vita semplice novizia o postulante, non mi giudicarono mai degna di alcun avanzamento; progredii nel comportamento benchè alcune regole, ora lo vedo chiaramente, le addottassi più per non essere rimbrottata che per convincimento. Appresi anche la lettura, sì. Questo non lo sapevate, neh, che sapessi leggere, e scrivere, anche; matta non è stupida, anzi la pazzia talvolta è un'intelligenza più grande, un capire superiore. Non sto parlando di me, ché commetterei peccato di superbia e presunzione. Ora so un bel po' di cose - dovrei dire che sono onniscente, ma so che non mi credereste. Non che questo mi abbia apportato più saggezza o, che ne so, serenità; non posso nemmeno dire ch'era meglio prima quando nella mia ignoranza tutto mi appariva fantastico. Ecco, fantastico nel senso che era lì reale e tutto intero, era un'emozione: la goccia di rugiada, il sole, il passero, il vento; sapere di come si forma quella gocciolina e che è idrogeno e ..., è diverso; sciocco dire: meglio/peggio. Di fatto, questo tenetelo a mente, le conoscenze acquisite sono per sempre; al più possono sbiadire. Così leggevo, in tre, quattro modi diversi; non dico intonazione, o analisi del testo, no, sarebbe stato troppo per me, benché mi riuscisse molto bene di imitare la cadenza di alcune sorelle lettrici così che poi, molto tardi, però, mi fecero leggere le lunghe storie edificanti nell'ora del pranzo. Letture che per me erano solo suoni: non capivo quel che pur leggevo così passionatamente; le singole parole avevano un referente ma il significato della loro concatenazione mi sfuggiva. Ecco che allora rileggevo, ma non arrivavo a ritenere e unire i significati delle frasi; lasciai perdere ben presto e mi facevo raccontare quel che avevo letto da qualche sorella. E non sempre, comunque, capivo il perché qualcosa accadeva, perché di certe scelte, anche di singole dichiarazioni, non comprendevo il senso letterario e il comportamento pratico: perché qualche santo chiedeva per sè sofferenza? perché gente buona si dichiarava indegna? Così ascoltavo le spiegazioni, i racconti, le prediche come ascoltavo il vento e il mare e gli uccelli cantare, le cicale frinire: per mio diletto, e il guardare la pagina d'un libro era come spiare fra l'erba o far scorrere la sabbia fra le dita; le maiuscole erano i segni più carini, quelle a inizio di capitolo in alcuni libri mi incantavano e le guardavo e rimiravo come fossero foglie o fiori o farfalle o cagnetti a panciall'aria che si fan grattare la pancia. Libri piccini da tenere in tasca e portar fuori all’aperto così da poter leggere qualcosina ai fiori, alle lucertole, agli uccellini no ché non stanno mai quieti né zitti, libricini da lasciare in tasca poiché c’è già abbastanza da leggere sedendo all’aperto, anche solo il celeste del cielo. Nella penombra della cappella i grandi, pesanti libri daí riflessi dorati del bordo delle pagine, e il rosso, il nero, l’azzurro, il carminio scritture in caratteri diversi piccoli, minuscoli, grandi, inclinati, squadrati, uncinati, gli spazi e le ombre, le macchie e le luci; non i piedi ma il dito che fa strada, che guida l’occhio nel latino dei Padri, incontrando parole, verbum, che sillabando formavano il suono incontrato in preghiere. All’inizio era una ricerca di segni uguali, poi di parole e poi ... l’insieme di ter o quattro era bastante perché i miei occhi, benché fissi nella pagina, s’aprissero a immagini che in verità erano sensazioni ora dolci, ora malinconiche, ora gioiose ora deliziose, ora estatiche ed era solo colore e poi luce e ... e era bella buona leggera soave la sensazione che mi riempiva; accadeva talvolta anche all’aperto guardando il volo d’uma farfalla o la tela di um ragno brillante nel sole (oh, le ragnatele con la brina!) o l’erba mossa dalla brezza, ma com le parole scritte era più facile, più immediato, più semplice probabilmente perché il rimando al referente reale - alle cose o ai sentimenti – richiedeva già um certo lavorio e concentrazione mentale e le immagini che venivano dalla memoria erano tutte quelle che conoscevo. Lo so che non avete capito, poveri di spirito; eccovi um esempio chiarificatore: avete um pane lì davanti a voi, che cosa potete pensare guardandolo? Beh: sarà buono? lo mangio? quanto costa? ha un bel colorito! non ne ho voglia ora. Se invece leggete, sillabate, la parola “pane” o la udite, che vi viene in mente? Intanto non una ma alcune forme del pane, e probabilmente il sapore e l’odore o anche la nausea se l’ultimo che avete mangiato era vecchio e stantio e magari ammuffito; e poi al forno, per esempio, o “prese il pane, lo spezzò e lo diede ...”; o alla formichina che trasporta di sbieco la sua briciolina di pane, o le trote che vengono a galla se butti nell’acqua minuzzi di pane. Io avevo sempre pezzi di pane in tasca quando me ne andavo per i campi e gli orti e in riva alla laguna. Si fa presto a far amicizia offrendo del pane, specialmente se sono animali. Come fanno le popolazioni che non lo conoscono, che non lo usano? Lo so che mangiano, per esempio, riso; ma io penso al trasporto: se metti in tasca uma manciata di riso ... Anche la polenta ti sporca la tasca e si rovina, non è più da offrire. Alcuni santi portacvano com sè delle noci, ma oltre al fatto che c’è uma sola stagione all’anno, c’è sempre il pericolo, l’inconveniente, la vergogna di offrire uma noce avariata o diseccata: come fai a vedere dentro? Mentre con il pane ... lo senti al tatto, all’odorato; e se s’è indurito, un po’ di latte o semplice acqua, e vino, certamente, lo infrolla. E l’offrite. Offrire non è donare: adesso so spiegare la differenza, allora la intuivo senza capire. Ci fu più di qualche occasione in cui non gradivo, non volevo il dono e non mi piaceva e rifuggivo il donatore. La donazione è qualcosa di imposto, che devi accettare per non offendere il dispensatore del regalo, è uno specchio in cui è possibile solo riflettere la tua gratitudine. Si presuppone che il dono sai gradito, che il presente sai fonte di gioia, che il regalo sai cosa adeguata al ricevente. Nello scambio è chi dá che há il merito, le benedizioni, i ringraziamenti, che fa bella figura; chi riceve è subordinato al donatore, anzi è inferiore e senza alcuna richiesta esplicita ecco che il regalo è di per sè, se non una forma di ricatto, um pegno di riconoscenza, e, in quanto pro-memoria, deve essere usato com parsimonia, rispetto, accuratezza, poco importa che sai un cucchiaio di stagno o una ruvida sciarpa di fustagno o um’immagine sacra. Detesto, oggi più che mai, i doni, non tanto per il circolo vizioso che si crea – tu mi dai, io ti do, tu mi devi, io ti devo -, quanto per la sua non-necessità o, meglio, intrusività; è un impiccio – “Non metti la cuffia che t’ ho regalato?” “Erano buone le caramelle alla menta-anice che t’há portato la zia?”. Così le pie donne, le beghine, le mal maritate e le zitelle donano alla “povera matta” cose assurde, “tanto ...”. D’altra parte l’essenziale è un’altra delle vostre paure: dovete avere di più, di tutto, specialmente l’inutile che vi fa dimenticare la quotidianità. Un anello per ogni dito e le mani diventano cosa morta per non rovinarli; collane, collannine, catenelle che ornano colli e petti senza valore, e guanti per tutte le stagioni, e sotto gonne ... Lo so, sto parlando di cose femminili, ma il mondo che ho conosciuto da vicino era il convento femminile. Anche pitali c’era chi ne aveva um certo numero ... E i litigi quando uma monaca moriva, anzi già mentre agonizzava. Perché siete così rapaci? Avrete bene uma vostra ragione, che io certamente non condivido; ma l’assurdo è che invidiate il vicino perché há di più o di meglio, il che è nella logica della vostra avidità e potere sugli altri, ma perché deridere, denigrare, detestare che non há e non vuole avere? Perché tanti improperi, romanzine, penitenze perché preferivo camminare scalza? Perché prendermi in giro per i rammendi alla mia tonaca? Perché strillavate o sghignazzavate se ponevo um filo di lana intorno al collo o al polso, o appuntavo una piuma o um fiore sul petto? E se la mia ciotola era sbeccata e se il mio cucchiaio era di legno e ...? Non vi andava bene, non vi va ancor oggi bene che ci sai qualcuno che non abbia, anzi che non desideri quello che voi sbavate di possedere. Ma ora so um’altra cosa – da qui è facile vedere e capire – che tutti voi faticate per riuscire a ignorare: l’insoddisfazione del vostro vivere quotidiano; e allora finché siete tutti nella stessa barca ... “mal comune, mezzo gaudio”, quindi si tratta di vedere chi è più stressato, più depressso, più intrappolato, più disperato. Appena si scopre uno che non sta alle vostre regole di gioco, anzi non vuole entrare in questo gioco, che succede? Lo dovete eliminare; non sta al gioco, è deviante, è matto. Se è matto ha un comportamento non confacente e dice-fa cose non nella logica vostra. Quando è iniziato tutto questo? Oh, non pretendo di andare all’inizio dei tempi, ma solo alla mia fase iniziale: cim’è che si manifestò, e quando, la mia pazzia? Sono nata così, già matta? Cioè già diversa, refrattaria – si può dire?- fin da piccola? Dote “naturale”, non “civile”. Avrei dovuto adeguarmi, e in parte l’ho fatto, gradualmente, uma forma di sopravvivenza nel compromesso. Non era in me la volontà di essere contro, bensì di seguire i miei impulsi, i miei desideri, quello in cui trovavo piacere, interesse, tranquillità. Mi lasciavo andare nel mio mondo, nel mio modo di guardare, scoprire, interagire com le stesse cose che voi vedevate com i vostri occhi o che ignoravate. E l’ossessione del tempo e la frenesia rabbiosa del fare vi ulcerano corpo e anima. Scusatemi se sorrido, non è che mi compiaccia di quello che sto dicendo che è fin troppo serio, e purtroppo è inatteso, inanscoltato. Sorrido immaginando la scena di me che pronuncio allora, in illo tempore, queste parole, queste sentenze. Sí, lo so, dopo lo sbalordimento m’avreste bruciata viva per stregoneria; matta da prendere in giro: tutto bene, bel divertimento; ma sapientona più dei vostri dottor Balançone, questo proprio non l’avreste sopportato, ed io non erro nemmeno um capello d’una Giovanna D’Arco né l’ombra del santino di santa ... Ma che vi sto a citare che a malapena conoscete i vicini di casa e vi interessa di più la vita e le imprese scandalose di divi e dive dello spettacolo e l’aritmetica delle partite al pallone, giocate da altri. Ma perché non le giocate voi? Giocare per giocare, non per vincere a tutti i costi o, peggio, per dimostrare che siete in gamba, “er mejo” come dicono in piazza san Pietro. Giocare è la cosa più naturale del mondo, cioè qualsiasi attività che abbia l’único scopo di prenderci interamente, di farci assorbire in quel che facciamo, che è fine a se stesso, anche se poi ti fa acquisire abilità: io, per esempio, erro bravissima a comporre ghirlande, collane, braccialetti, catene lunghissime di mergherite. Sapete, vero, come si fa? Il gambo di una ... Bom, ora so che ho giocato un’infinità di giochi tutta la mia vita, o, possiamo dire, la mia vita fu tutto um susseguirsi di giochi, ovvero facevo tutto com l’attitudine d’um gioco, cioè quel che mi impegnava era sempre uma forma di gioco. Ups; vedete che anche adesso, qui, mi è difficile spiegare, spiegarmi. Perché giocare è una cosa seria; non so perché abbiano inventato – o forse frainteso – il modo di dire “per gioco”. È talmente seria che la concentrazione, l’impegno, le risorse personali che si profondono in esso sono totali; sai a due anni che nell’età matura. Giocare è intensità operativa, è perdita della nozione del tempo, è, paradossalmente, essere doppiamente – ma forse esagero – viventi. “Ecco che sragiona di nuovo da matta.”, dirà qualcuno; e un altro:”Matta? Quella è più furba di noi: lei gioca e noi ...”, “Sì, mangia pane a ufo!”, esclamerà il terzo, Sempronio. E quando poi scoprite che ci sono intere popolazioni che hanno vissuto, vivono e vivrebbero così, se le lasciate in pace, ecco che, com smorfie di ribrezzo, rilevate il loro primitivismo, pauperismo, semplicismo, ... ottimismo. Um po’ simili a me, nevvero?, quando erro la matta, in mezzo a voi. Qualcuno, più di qualcuno, há doviziosamente descritto i vari tipi di follia omnipresenti, ma come l’ebbro non ammette di essere ubriaco, così la pazzia socialmente accettata, se non prescritta!, è il comportamentonormale, la norma. E vi sono anche follie epocali che durano dieci, cinquanta, mille anni. Via, che lo sapete, che l’avete studiato – si suppone – a scuola e magari ci avrete riso su! Io di che cosa ridevo? Ridevo? Certo! Perché no? Ma penso di non averne saputo il motivo, cioè c’erano avvenimenti che mi facevano ridere, sì: proprio una bella lunga risata sonora per quel che vedevo o che accadeva a me – però questo fu molto più avanti negli anni. L’espressione sconcertata di um gattino che scivolava in uma balza del terreno nella foga del gioco, le scrollatine di zampe di cani nella prima neve caduta, la monaca che s’appisolava nel mattutino e si piegava sul fianco della vicina. Uma volta dovetti correre fuori dalla cappella poiché tale era la ridarella che m’era venuta udendo improvvisamente ronfare sonoramente alle mie spalle. Ridevo anche, poi, per l’acqua versata sbadatamente su um boccale capovolto o per le olive che non riuscivo a inforchettare – in refettorio usavo le posate, in refettorio ... Le buone maniere a tavola; non che io avessi uma qualche ragione o inettitudine, trovavo meramente più semplice, comodo se vogliamo, usare le dita ovviamente, logicamente, quando si potevano usare, voglio dire com il tipo e la composizione, la preparazione del cibo. Ma quel che non andava bene agli altri non era tanto questo mio “aiutarmi com le dita” nel portare il cibo alla boca, quanto il rendere il manducare um gioco. Non so perché il cibo debba essere ingurgitato senza porvi quase attenzione sai per fame sai per golosità sai per abitudine; il più delle volte gustate com gli occhi, ed è uma sola occhiata ed è il primo boccone o sorsata che, se è il caso, ricordate, poi è un automatismo come camminare per andare in um luogo determinato che è bem diverso dal passeggiare, gironzolare. Il cibo è um piacere a cui bisogna prestare attenzione. Beh, veramente, tutto nella vita è piacere, ossia, visto come vanno le cose nella quotidianità, dovrebbe essere um piacere; tutto. Il gustare le cose, le sensazioni, gli attimi; essere presente alla vita, nella vita. Troppo conciso? troppo etereo? troppo filosofico? Volete uma parabola, um racconto, um esempio, uma storiella, uma esemplificazione ... per far finta di capire, neh?! Fingete, lo sapete anche voi nel vostro intimo! Mentite o, più correttamente, assentite ma praticamente continuate nel vostro andare. Non che abbiate troppa colpa in questo: è nella natura umana capire com la mente, ma agire e mutare il proprio agire com il cuore, com il sentimento, le sensazioni. Irrazionalmente potrei dire, perché mi intendiate, ohó, in forma blasfema. Sapete, ecco l’esempio, che “ne uccide più la gola che la spada”, ma voi trovate mille e uma scusa per continuare a mangiare e bere quel che vi aggrada in quantità accessiva. Lo so che mi date ragione, come sono certa che riderete perfino nel constatare come tizio si lagni sempre di qualcosa e caio di qualcosaltra e voi stessi del caldo d’estate e del freddo d’inverno, del troppo fumo o del troppo arrosto, della noia o del daffare, d’aver i capelli lisci o crespi o neri o biondi o ... E sempronio che non telefona o teresa che non la smette mai di parlare come, ahiahi, sto facendo io ora. [attimi di silienzio] Non che il silenzio vi piaccia: troppo pericoloso – potreste sentire il vostro cuore battere e il sangue pulsare, potrebbero arrivare alla soglia della coscienza pensieri rimossi, potrebbero serpeggiare nelle vostre fibre sensazioni non gestibili. È per questo che adorate la TV, é per questo che vi rintronate con rumori che chiamate musica, è per la paura di voi stessi, di quel voi che avete nella pancia, nella testa, nel cuore o dove meglio, o peggio, credete, che esca fuori, nel silenzio, e vi aggredisca o laconicamente vi chieda: ”Ma che cavolo ...?”. Non è facile convivere com se stessi quando si è cresciuti in bisogni e paure condivise; cattiva educazione, pessimo apprendistato. Non che la mia acculturarione sai stata migliore, anzi! non si sfugge ai miasmi, al pulviscolo, ai suoni dell’ambiente in cui ci si trova a vivere, la mia fortuna fu di non essere stata bem ammaestrata, di aver usufruito di bem poca civilizzazione e di essere nata o divenuta o predestinata ad essere ... quel che erro. Il fiore nasce fiore, può aver profumo, avere colori molto gargianti, ma è nella sua natura: né merito né altro; così fu per me che vissi quel che dovevo, mi sentivo, di vivere. Io, non altri; io, non per altri; io, non con altri. Io sconosciuta a me stessa, perduta-immersa nella meraviglia dell’esistenza quotidiana; io: tutto e nulla, banalmente. Io, che mi specchio nell’acqua e non mi riconosco. Io, senza nome – perché, poi? chi m’avrebbe chiamata per correre al suo petto? Io: munega matta né munega né matta né io. Cogliete um fiorellino di cui non conoscete il nome e lo tenete fra le dita o fra i capelli fino a sera; appassito, è lasciato cadere; vi è piaciuto, è servito a darvi um pochino di bellezza o tenerezza o serenità; non è più: e domani, domani è um altro giorno. Com la pioggia o com il sole; è bella la pioggia, e dolce il sole com il tepore dei suoi raggi, com le carezze che scaldano fino a bruciare la pelle, il languore che dalle cosce s’espande al ventre ... Nuda nel sole, il mio corpo, la mia pelle lambita, sfiorata, avviluppata dall’aria, dal vento ... Ho detto nuda, ma non sapevo di esserlo, voglio dire che l’essere vestita era il mio stato innaturale, di costrizione, di vergogna e continua attenzione a non insudiciarsi, a non stracciarsi, a non scoprirsi! Nel mio curiosare nel convento ero arrivata ad uno spiazzo sul tetto, legno e pietra ruvida: non molto attraente per quanta erba e fiori vi portassi ché appassivano, seccavano, marcivano, ma era riparata, sicura, salva; con la pioggia potevo starmene nei campi, fra l’erba viva: le gocce di pioggia fan da barriera, cortina, protezione – il mondo si ferma in attesa che smetta il bagnante picchiettare. Com’è fredda la pioggia talvolta, gocce gelide che fan rabbrividire. E quando cade ghiaccio dal cielo? È meglio starsene riparati e stendere appena una mano alla grandinata. Era eccitante succhiare quei sassolini freddi che si scioglievano in bocca e si liquefacevano sul palma della mano pizzicandola. Ho capelli folti, bruni, ondulati – non ve ne siete mai accorti? Pensate solo ai pidocchi che potevano dimorare nel cespuglio che copriva la mia testa; e com ragione suppongo.In questo sono stata grata alle suore: di tagliarmi, sfoltirmi, pulirmi i capelli; non tanto per la liberazione da quelle formichine – ce n’erano altrettante nei materassi, nelle cuciture delle tuniche ... I capelli corti erano facili da pulire e specialmente da asciugare. Cose che si apprendono, per caso; conoscenze dovute alle circostanze; abitudini, gusti, usi derivati dagli accadimenti quotidiani: se avessi avuto l’opportunità – o l’imposizione – di ripararmi dalla pioggia ogni volta fosse stato necessario, non avrei sperimentato le varie sensazioni del bagnato, delle gocce picchiettanti, del freddo, dell’ebbrezza estiva, dell’inutilità anzi dell’incomodo degli indumenti di pessimo materiale che tardavano ad asciugarsi e s’appesantivano al primo scroscio di pioggia. E cosí il sole; la nudità era conseguenza del dolce tepore dei raggi di sole. Nudità mai percepita come qualcosa di strano, difforme, ecrzzionale, anzi talmente banale da non far nemmeno caso ai putti nudi dei quadri e illustrazioni sacre – il loro “cosino” che turbava o muoveva al riso soffocato alcune monache, era bem poca cosa, a pensarci ora, con quello di cani, capri, cavalli ch’erano nella campagna circostante. Il tutto, voglio dire ogni conoscenza, dovuta ai “casi della vita”, alle circostanze. Conoscere è sapere, non è accettazione; questo voi lo sapete benissimo, conoscete ciò che è meglio o peggio per voi e ... Lo so; lo sappiamo, lo sapete: una scusa si trova sempre per giustificare l’errare. Ed errare è sí bem questo mio dilungarmi in chiacchiere che van bene per passare il tempo, o per scambiarsi informazioni, indicazioni, notizie, conoscenze che, umanamente, ohinoi, si sa, sconfinano nel pettegolezzo. Chiacchierare è anche rapportarsi, meglio, vedere, toccare, “annusare” l’altro, l’interlocutore, lo sconosciuto in specie. Penso di avervi detto abbastanza, anzi troppo, cosicché ognuno di voi riterrà e ricorderà solo frammenti del mio dire, che altro voleva essere se non um semplice e piano ripensamento sulla irragionevolezza quotidiana, sul vostro esser ottenebrati e ... e ... uma ciliegia tira l’altra ed anch’io, umanamente, mi son lasciata trascinare nell’indicarvi le sfacettature che s’intersecano une sull’altre del comportamento vostro aberrante. E nella foga o desiderio di farmi intendere, ho abbondato della vostra retorica, com il risultato di sentirmi io, ora, un po’ sfasata, un po’ melensa, un po’ matta; inconcludente, insomma. Avete notato che più in una cucina ci sono libri di cucina, di ricette, dico, meno, usualmente, lì si fa da mangiare? Bom, forse perché io stessa non sono stata una brava cuoca – ma come avrei potuto? chi si sarebbe fidato? oh, non dico a mangiare ma anche semplicemente a far preparare pietanze a me, matta & selvatica – dicevo che se fossi uma buona cuoca v’avrei fatto assaggiare il cibo preparato da me, invece v’ho dato dei banalissimi consigli, suggerimenti e avvisi dietetici e qualche ricettina che non serve per um pranzo. È meglio continuare atacere, e continuare meramente, intuitivamente, inconsapevolmente meglio ancora, ad essere. Ed io ho parlato, matta che sono! Perché ... fra voi ... più ... non sono. D’esempio.
Giancarlo Varagnolo
Santo Anastácio – São Paulo , Nov.-dic. 2010.
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