Rue de Trèves
Monologo interiore
Giancarlo Varagnolo
Fumo. Cioè, io fumo. Però è proibito : Vietato Fumare. Così salgo e scendo scale per uscire in strada. Scendo & salgo sia all’andata che al rientro perché l’architetto, seguendo un recondito impulso freudiano, ha progettato scale e controscale all’interno dell’edificio dove lavoro. Cioè dove la mia forza lavoro si traduce in denaro contante, che va diretto nel mio conto bancario, per la mia prestazione d’opera.
Non che necessiti fumare, però lo fan tutti: seguo l’onda. Raramente sono io solo a fumare in strada; cioè l’unico: c’è sempre qualcuno o qalcuna più su o più giù o sull’altro marciapiede a produrre fumo. Non che io provi molto piacere, non so loro quale ne conseguino, certo è che la maggior parte brucia così veloce la loro sigaretta quasi fossero obbligati a farlo; cioè fosse una medicina necessaria ma non proprio da assaporare, gradire.
Una mattina di pioggia un mio collega mi chiesi se avessi l’ombrello; alla mia risposta affermativa, mi invitò a fumare una sigaretta con lui. Doveva essere l’ora della pausa sigaretta perché c’erano un bel po’ d’ombrelli sparsi lungo tutta la via, ed alcuni irriducibili fumatori che puffano al riparo di rientranze, bavero dell’impermeabile rialzato. Non è mia abitudine fumare prima di pranzo, così davo tirate lente e svogliate; il mio collega finì la sua e: “Visto che ti devo aspettare, me ne fumo un’altra e faccio il pieno di nicotina!” Per me era già indigesto il poco che avevo fumato.
Da allora impresto volentieri il mio parapioggia e non scendo a fumare, però approfitto della scusa fumo per starmene sotto la pioggia al riparo della volta dell’ombrello che defila il mio non tenere una sigaretta fra le dita. Cioè non fumo; meramente sto lì fermo presso il portone a guardare la strada; e i fumatori. Non è un far-passare-il-tempo ché riesco a farlo scorrere ben veloce lavorando, concentrandomi su quello che faccio; qui sotto l’ombrello nel tintinnare della pioggia (talora è talmente sottile che non fa che un vago fruscio) mi rilasso, anzi penso sia un diverso modo di meditazione zen (sono così strani i monaci buddisti). Quello che vedo, quello che sento, quello che percepisco o fluttua nella mente crea lenti pensieri che s’espandono fino a sparire e formarsi poi di nuovo, ma con volute diverse. Ecco: volute, come il fumo che sale perpendicolare dalla sigaretta tenuta fra le dita o è soffiato fuori in larghe nuvole opache che nell’inverno diventano più grandi e spesse. Non mi piace vederlo uscire dalle narici, specialmente se è un volto carino di donna, non ne ho ancora scoperto il motivo e, ad essere sincero, non mi piacciono le donne che fumano, cioè nell’atto di fumare – se poi usano quegli assurdi bocchini lunghi, beh, diventano ridicole, pagliaccesche, quasi che ad ogni boccata suonassero una trombetta carnevalesca. Così talvolta preferisco abbassare la cappa dell’ombrello e magari concentrarmi sulle loro gambe, se sono in gonna, o sui miei piedi se cominciano a raffreddarsi.
I più buffi, in senso positivo (che cosa connota un “buffo positivo”? che fa sorridere, suppongo), sono i giovanotti che fumano discutendo animatamente, meglio senza sentire di che né le loro voci: vedete come usano la sigaretta, come tengono il cilindro fra le dita, come s’esprimono nell’inspirare, nello sbuffare fuori il fumo, o nel lasciare la sigaretta presso le labbra in una parentesi di attesa? E il colpetto secco di lato per far cadere una cenere spesso inesistente? E la mano in tasca, e la mano chiusa a pugno sul petto con la sigaretta che le esce come un picciuolo di mela? Meglio che allo zoo, cioè altrettanto interessante l’osservazione del comportamento dei nostri simili. Devo dire che mi sono messo ad osservarmi, voglio dire: io vedo loro e loro come vedono me? Ma non sono cose che si chiedono a colleghi, è più facile con estranei (magari in aereo o in una sala d’attesa in un ambulatorio medico – “Anche a lei ...?”), con sconosciute in balere o con vecchi amici depressi e ebbri.
Anche un’amante che ne ha le scatole piene di te, è un’ottima fonte di conoscenze su te stesso; purtroppo ti vengono rivelate poco prima che lei sbatta la porta e se ne vada, cosicché, visto che sembra non ne valga la pena, si continua a metterci le dita nel naso quando ci si ferma al semaforo rosso, si lascia che le scarpe si impolverino e il pettine si riempia di capelli tuoi (ma ormai sei solo, no?!).
C’è una fumatrice che mi piacerebbe fosse la mia amante; sì, proprio amante nel senso classico, da foulleitton ottocentesco, da incontrare ... beh, ecco, propro come ci si vede qui uno da un lato e l’altro dall’altro della strada. Fuma con una certa fretta, ma non con nervosismo; diciamo che ingola il fumo rapidamente e poi lo lascia uscire con calma quasi ne assaporasse di più l’allontanarsene. Io sono per brevi aspirate e lente, svogliate, quasi, soffiate di fumo, anche perché lo tengo in bocca senza farlo scendere in gola. La donna deve avere qualche anno meno dei miei, ed è quasi sempre sola, appoggia la sigaretta al lato della bocca, penso proprio non la infili fra le labbra, io invece pongo il cilindro proprio parallelo all’estendersi delle narici e talvolta prendo più della metà del filtro in bocca, un vizio del mio passato di fumatore di pipa. Non abbiamo mai incrociato gli sguardi: lei di solito guarda verso terra o la punta della sigaretta, cose che io non faccio perché mi piace guardarmi intorno fra una boccata e l’altra e controllo l‘allungarsi del cilindretto di cenere con la coda dell’occhio. Il bello del fumare nei giorn di pioggia all’aperto è che ti puoi permettere di tirare il mozzicone di sigaretta, con la sua brace lunga rosseggiante dell’ultima tirata, senza alcuna remora nella strada: un bel colpo del dito medio e vai! Ma se sono al chiuso detesto far cadere la cenere su piatti, piattini o tazze e chiedo, pardon!, chiedevo sempre un posacenere. Pulito; sono un fumatore che non gradisce il fumo degli altri, anzi nemmeno il proprio quando diviene stantio, e che s’irrita con i fumatori mattinieri, anzi con tutti i fumatori.
E allora perché continuo a fumare, meglio: fumacchiare? Per restare nel club dei Pausa-sigaretta? Per pigrizia o inerzia? Oggi a una ventina di metri ci saranno state almeno sette persone che fumavano e discutevano stancamente, cioè erano qui fuori per snebbiarsi delle relazioni di una qualche riunione. Un bel nuvolone, con l’imbarazzo mutuo di non sapere dove soffiare fuori il fumo, i più alti avevano l’escamotage di soffiarlo bello alto allungando verticalmente il collo. E alla fine hanno fatto cadere il posacenere a stelo per il troppo premere per spegnere i mozziconi. (È uscita un’inserviente con scopa e paletta a raccogliere il monticello grigio-aranciato sul marciapiede.)
Al lato di quasi ogni portone c’è un posacenere, i più comuni sono quelli verticali, su un’asta o cilindro, che occultano il malloppo di cicche, ma ve ne sono di semplicissimi poggiati su una rientranza del muro esterno se non in un angolo defilato a terra. Non che sia andato a curiosare, ma passando uno guarda e vede; forse che si possono trovare delle indicazioni sulla ditta, ufficio, azienda e il suo organigramma in base ai resti di sigarette fumate dagli impiegati? Ci scommetterei. Per esempio, non ho mai visto né annusato sigaro, perché? Per la pipa è ovvio: ci vogliono almeno una trentina di minuti per dare una fumata decorosa, ma il sigaro? E, all’estremo opposto di intensità tabagista, quelle sigarettine che sembrano stuzzicadenti, hanno una valenza ... positiva? “femminile”? Nevrotica (fumo ma non dovrei)? Non che abbia pensato tutto questo così logicamente: ci mancherebbe altre per uno che scende in strada per respirare aria non pura, va be’, ma almeno non condizionata o deumidificata; è che per accumulo di indizi, dal particolare si arriva al generale con proposizioni belle logiche e filate, magari mentre sei in piedi aggrappato alla sbarra orizzontale d’appoggio nel metrò e ti vedi riflesso nel vetro tosco del finestrino.
Mi sembra logico che i prossimi edifici avranno un posacenere già incorporato nel muro esterno, né più né meno che il pulisci-suola in ferro che ancor oggi si vede di lato alle entrate delle case costruite all’inizio del ‘900 quando ancora c’era più fango che asfalto. In due o tre punti della via non si scherza in quanto a pozzanghere! Non è fango, ma acqua oleosa che ristagna un bel po’ dopo ogni pioggia nella carreggiata; la massa degli schizzi è bella a vedersi, specie quella provocata delle enormi ruote degli autobus. Ad essere completamente sincero, io spero sempre che l’ondata colpisca qualche passante, ma non per spirito di cattiveria! Il fatto è che è una catena logica che deve terminare con la risata di chi vede e le imprecazioni di chi è stato bagnato; un gioco, perché non solo poi mi sento in colpa se ciò accade, ma sono il primo ad inveire contro il conducente la vettura, ed anche contro l’Amministrazione che non assesta la strada. Però sono lì in attesa della monelleria, già sorridendo all’idea, è più forte del mio raziocinio: che sia un senso dell’umorismo innato? Non saprei, perché alcuni atti o meri pensieri sono compulsivi; ricordo il mio smarrimento e afflizione quando da ragazzino tirai una fiondata ad un rospo che nuotava nell’acqua e feci centro, probabilmente il furbo rospo si defilò nel fondo pantanoso, ma io continuavo silenziosamente a dirmi che non avevo nessuna intenzione di ammazzarlo (pensavo di averlo fatto non vedendolo riemergere) ma semplicemente di spaventarlo con un tiro rasente (come nei film di cowboys).
Un ranocchio ce l’abbiamo anche qui, è un tipetto basso e tarchiato con la testa tonda e la bocca enorme, quando indossa il cappotto non si può fare a meno di pensarlo ranide, e forse inconsciamente lo ha capito anche lui, sì, cioè perché non scende in strada per fumare, ma per leccare quelle caramelle infilate in un bastoncino, facendo sì che si noti senz’altro la sua larga bocca con la confettura colorata che entra, esce o è lappata da ... la-rana-dalla-bocca-grande della storiella *; un altro che approfitta del Club della pausa sigaretta per scendere a chiacchierare – chissà perché non fuma, però ha spirito gregario. Ci si conforma un po’ tutti nel gruppo, consciamente o senza avvedersene, per vari motivi, non ultimo il queto vivere, la pigrizia, l’emulazione becera. Eccomi qua a far quello che fanno tutti, unicamente perché lo fan tutti (ma non è un’operetta?).
La bella stagione, come eufemisticamente chiamiamo l’estate, è quella che mi piace meno; no, non in sé, ma qui in strada. Fino al selciato i raggi del sole non riescono a scendere cosicché la luminosità è un mero riflesso del chiarore solare che investe unicamente le parti alte degli edifici e, stranamente, rende la via più vuota, più solinga, più aperta a una melanconia afona. Scendere in strada deteriora in mestizia talora tediosa la sonnolenza ronzante dell’aria condizionata: il tepore umettato e immoto dell’atmosfera della strada ci appesantisce le membra e con esse i pensieri; fumare così nella luce che viene dall’alto, sbottonato il colletto della camicia e allentata la cravatta, procura una sensazione di attesa o talora di un’occasione perduta, senza sapere quale, o di qualcosa che s’è dimenticato. Nel sole, nella luce di un sole che rischiara, ci si sente smarriti, stranamente ma inequivocabilmente soli. Forse perché lo spazio visivo si allarga; nemmeno il fumo sembra così denso, ed è sgradevolmente tiepido. Non devo essere l’unico ad avvertire il desagio dell’intrusione dell’estate nella via perché son certo che sono meno le frequenze tabagiste. Bizzarro come la maggior parte scenda in strada con gli occhiali da sole; che sia per non vedere ed attenuare la melanconia della giornata di sole?
M’è capitato di accendere una sigaretta dalla parte del filtro, piccola distrazione rivelatrice che non si è lì con la testa e l’attenzione è altrove. La reazione immediata è d’irritazione e poiché la colpa è unicamente tua, ti dai dell’idiota, a cui però l’autostima si ribella; ed ecco che ti gurdi intorno per accertarti che non vi siano testimoni della grulleria, dell’atto mancato. Nell’incipiente oscurità della sera invernale non v’era alcuno nella via e se anche vi fosse stato non avrebbe notato anzi nemmeno visto la sbadataggine, però quell’attimo di comportamento furtivo - complice lo scenario serotino, la sigaretta in mano con il filtro bruciacchiato che mi colpevolizzava – mi portò involontariamente a pensare che potevo essere, un bandito, uno spacciatore, un agente segreto, una prostituta ... ma qui l’immaginazione infantile si bloccò –sarà che ci sono ancora peripatetiche nella strada, all’aperto? Così mi venne di pensare che sarebbe stato ben funzionale se ogni edificio avesse avuto un fumoire nel terrazzo, sul tetto, all’ultimo piano.
No, sarebbe stato sempre essere in gabbia, dentro. Nella strada s‘era fuori; si respirava un’aria di libertà, viziata sì, e della durata d’una sigaretta. Bastava.
São Paulo, 16 marzo 2013.
G.V.
Nota* La storiella umoristica è molto semplice ed ha il suo atout nella mimica. C’è una rana che chiede agli animali che incontra quale sia il loro cibo preferito, pronunciando la domanda con la bocca esageratamente spalancata, finché ne incontra uno che le risponde: “Mangio le rane dalla bocca grande.” Al che la rana, con la bocca quasi chiusa, fa: “Ah, sì?”.
Nessun commento:
Posta un commento