venerdì 9 maggio 2014

Profluvio.



“L’amore è non sapere di cosa

si sta parlando.”

 

Se era arrabbiato? Era furente. Stava per scoppiare. Le parole non pronunciate gli si rimestavano nello stomaco e le tempie gli pulsavano per le frasi che roteavano nella sua testa come trottole vorticanti multicolori. Imprecò a mezzo nell’aprire il portone d’ingresso dello stabile, ironicamente infastidito dal contrattempo nell’inserire la chiave che deviava la sua irritazione dal soggetto principale.

Davanti alla porta dell’ascensore emise uno sbuffo che somigliava ad un sospiro. Premette il bottone di chiamata blandamente e attese quietamente: la regolarità delle funzioni del mezzo ponevano le sue sensazioni in uno stato di stasi, di apoché, di vuoto mentale, gli accadeva in aereo, in autubus o metropolitana –sempre che non divesse tenersi allertato per scendere alla fermata desiderata; era “trasportato”, la velocità e il percorso e il tempo d’impiego non dipendeva da lui. Quando fu nell’appartamento scattò come una molla, meglio, come una di quelle palline superelasti che rimbalzanti infinitamente con un solo lancio.

“Imbecilli!” Ecco: finalmete poteva dirlo ad alta voce, poteva far uscire dal suo corpo un poco dell’ irritazione trattenuta. “Im-be-cil-li.”  Ma già era un sotto-voce; e poi una ripetizione senza suono, mentale. Scelse senza esitazione il tipo di sigaro fra i tre o quattro che giacevano nelle loro scatole: era da almeno un’ora che pregustava, no, che abbisognava di un paio di boccate di Toscano Extra Vecchio. E un gole di grappa, gelata.

“Amore ..., agh!” Riempì a metà il minuscolo bicchiere, lo portò al naso per inspirarne il profumo e quindi emise un respiro di soddisfazione nell’ assaporarlo un poco. Dalla finestra semiaperta entrava la musica ritmata lontana di una canzonetta. Intinse la punta del sigaro nel bicchiere e bevve facendo scorrere il liquore a rinfrescargli tutta la bocca, poi mise il sigaro fra le labbra.

Scendendo già altri pensieri gli fluttuavano in testa, dopotutto s’era liberato ... Beh, si poteva dire che gli era impellente sputare un bolo di saliva e lo aveva fatto; punto.

Il viale era silenzioso e deserto, mezzanotte passata, ma era estate; all’inizio del viale v’era una pizzeria take away  con parecchi clienti, gruppetti di giovani se ne stavono in piedi chiacchierando nello spiazzo di fronte. L’uomo girò sulla destra senza guardare nessuno, curioso solo di leggere la temperatura nell’orologio digitale all’angolo della piazza che ora gli si allungava a lato. +23º : non molto per una notte di piena estate.

Fu fortunato a trovare una panchina libera tutta per lui: la “puzza” del sigaro – fumato da altri - non era gradita nemmeno a lui; l’accese.

“Amore ... amare ...” Come si fosse arrivati a parlare su tale argomento, a discettare, non se lo ricordava; era stata un’esplosione quasi improvvisa con tutti che volevano dire la loro. Tutti i commensali della tavolata al ristorante, i suoi amici che programmavano una cena fuori almeno ogni due settimane, ed era la calda estate ... Coppie di amici, o amici accoppiati ... “maschio e femmina che vivono insieme, per copulare o per aver già consumato”. La fortuna di essere single lo salvava dalla divisione di pizze, bibite e scambi veloci ma pungenti ed acri con l’altra metà; quella sera s’era trovato nell’occhio del ciclone Amare Significa, con acquazzoni sparsi di Amare È  e grandinate di Quello Non È Amore.  Se si fosse stati all’aperto e lui avesse avuto qualcosa da fumare, probabilmente non sarebbe intervenuto nella discussione e certamente avrebbe non ascoltato. È abbastanza sgradevole trovarsi coinvolti in dissapori altrui, se poi i termini delle rivalse e rimproveri sono palesemente di parte o scorretti, diventa moralmente problematico restarsene fuori, neutrale. Avrebbe potuto anche fare l’osservatore esterno, un bird watcher (aveva prestato La Scimmia Nuda nella traduzione francese, ma non gli avevano ancora ritornato il libro), se fosse stato più pettegolo e meno linguista, più curioso e meno pedante. Capiva dove eveva origine quel battibecco che aveva portato allo schierarsi dei maschi in difesa dalle rimostranze se non accuse, con rinfacciamenti non proprio velati, delle donne; capiva perché c’era passato, il che lo rendeva insofferente a questo genere di litigi trasudanti rancore represso – perché si continuava a stare assieme quando ormai la coppia era di opposti? Perché, si chiedeva in una perplessità feroce, non si parla chiaramente, direttamente e nel dovuto momento? Perché si aspetta di essere saturi fino a scoppiare, inghiottendo e sputacchiando ogni tanto in faccia all’altro?

Perché ... probabilmente è banalmente umano: socialmente così è – e la psicologia & c. è lì ad aiutarvi dopo. Si raccomanda di usare il preservativo e si insiste nell’igiene orale, ma nessuno mai insegna come pulirsi propriamente il culo e interagire con il partner. Perché la coppia (famiglia) se nessuna regge, tiene, dura?

Questo l’uomo non lo aveva pensato quella sera: erano elucubrazioni passate, meditazioni d’altri giorni, pagine di diario già scritte. Una cicatrice; l’inane esperienza. Un buon senso che rasentava l’indifferenza, l’occhiata erratica.

Alla terza boccata l’aria aspirata attraverso il cilindro di tabacco s’era inumidita portando con sè il gusto buono del sigaro. “L’amore! – pensò l’uomo canzonatorio, soffiando compiaciuto il fumo del sigaro - Finché usiamo i sostantivi non andiamo molto in là con la concretizzazione del dermine; ok: una rosa è una rosa è una rosa, ma l’amore non è che astrazione, meno reale di un qualsiasi nanerottolo così di moda oggi nei fumetti. L’amore ... Me ne dia un tot!” Guardò la punta del sigaro e diede un’occhiata alla piazza: c’era ancora parecchia gente in giro, nel lato apposto, verso il lungomare, i tavolini del bar d’angolo all’aperto sembrano ancora tutti occupati. Si lasciò andare nell’assaporare il sigaro, se continuava a far lavorare il cervello perdeva il piacere della fumata – non gli riusciva di concentrasi su più cose contemporaneamente, e poi il saggio diceva: ”Se mangi, mangia, se bevi ...”. E amore era amare; e amare era che? Continuò a fumare appoggiandosi allo schienale basso e scomodo della panchina e allungandovi il braccio sinistro, si sentiva soddisfatto ma senza un oggetto o motivo definito; tenendo il sigaro tra le labbra distese l’altro braccio sulla schienale e stese le gambe leggermente divaricate; e tese i muscoli più volte sentendo scricchiolii che lo fecero sorridere e per poco cadere il sigaro dalla bocca.

Affermazioni, interrogativi e sarcasmi della serata gli ritornavano alla memoria e s’accorse che il verbo usato non era amare bensì voler bene a. Sinonimi, ma non con significati simili. E non è una caratteristica della lingua italiana d’aver almeno due lessemi per “amare”, ma ogni scimmia sul proprio ramo – e l’uomo tolse il mozzicone di sigaro di bocca, senza staccare il gomito dallo schienale della panchina, e sospirò. “C’è il sinonimo di lieben o solo fraintendimenti e incomprensioni?”

Il pezzettino di sigaro s’era spento, l’uomo era rimasto a braccia spalancate e gambe, in calzoni chiari, distese a guardare la gente passare fuori della piazza. Un altro bicchierino ..., no, bastava un’acqua e menta gelata, dopo, a casa, amore mio, ché l’amore è sempre mio. Ottenebrati!

Non c’era niente come le notti d’estate per le ricordanze. “Me ama, me brama, me vol ben, me fa i corni.” Cosa ricordava poi? Quasi nulla: la calle stretta, il pettine e la spazzola con il dorso rosa di vellutino (regalo di che?), e un senso di stupore per lo sciupìo gratuito di così tante margherite. “Me ama, me brama. ...” - e i bianchi minuscoli petali del fiore venivano strappati, finchè fra le dita di sua cugina restava solo il piccolo bottone giallo – “me vol ben, ...”.  L’aveva amata? No – parola troppo grossa per un sentimento così repentino – ma “bramata” sì, benchè anche qui, per quel che ricordava, era un desiderio vago che non arrivava alla concupiscenza; e non le aveva voluto bene ché allora non ne conosceva il signifacato, il sentire. Quanto a tradirla ... Non le aveva nemmeno dato un bacio, Lory lo attraeva e lo intimidiva, dopotutto aveva un anno più di lui.

Succhiò lo spuntone spento del sigaro, sorridendo vago: non ricordava il volto di sua cugina, vedeva la stretta calle in fondo alla quale c’era la casa della zia, l’appartamento all’ultimo piano. Non si erano più incontrati dal primo o secondo anno delle superiori –una vita. “Me ama, me brama, ...” Chi, ora? Amare: cioè?

E le voci litigiose, le frasi recriminatorie, i gesti spazientiti del dopo cena ritornarono alla mente come un improvviso soffio di vento, sgradevole. Ma si erano mai amate quelle coppie? A loro modo, come ora si sopportavano, rancorose, ognuno per propri motivi, e giustificazioni. L’odio che stava per entrare in scena; l’odio: l’altra faccia dell’amore, si dice. Cominciamo da qui, dall’altra faccia dell’amore? Dal voler male invece che voler bene? La “brama” sembrava però restare. Accavallò le gambe, ma desistette riallungandole: faceva caldo, la brezza di mare si sarebbe levata più tardi. Non amava l’umidità; non amava un sacco di cose, probabilmente non amava alcunchè, né alcuno. Sbuffò – “Amare. E scosse la testa scettico, irrisorio, supponente. “... poco poco, me fa i corni.” Trattenne la risatina per non far cadere il mozzicone di sigaro che teneva incollato all’angolo della bocca, “Ed è qui che ti voglio! Partiamo da una foia erotica per arrivare a un amore che è lavare i piatti a turno (lavastoviglie non permettendo). Ebeti. E se i due chiamassero le cose con il loro nome? E se la gente non si dimenticasse della realtà delle cose? E se dicessimo pane al pane o, meglio, molto meglio, non inventassimo-dicessimo parole preservativo?” Fece una smorfia levandosi il mozzicone di bocca – il vocabolo gli era venuto lì quasi ovvio nel contesto di pensieri sessuali, ma non gli piaceva né rendeva l’idea di obnubilamento, “Che è il contrario di disvelamento; togliamo i veli e non solo le mutande, perdiana!” L’imprecazione, volutamente formale e piana, lo fece sospirare mentre si raddrizzava contro lo schienale della panchina. “L’amore è una cosa meravigliosa; sempre? Prima? Dopo? Durante? Prima e dopo di che? Oddio, sto perdendo il filo.” Gli era sembrato così semplice fare lo schemino, bianco su nero, nella sua lavagna mentale mentre gli altri per poco non si accapigliavano; ora ebbe una sensazione di smarrimento, di impasse –beh, non c’era riuscito nemmeno Platone a definirlo l’amore ... Duemila anni fa, comunque. “ora, solitamente, i filosofi, o che dir si voglia, moderni prendono il lemma da trattare, come fosse una cavia, e lo sezionano in sintagmi qurdando nel dizinario; quelli che vogliono parere più informati, più sapienti, più eruditi, più nella verità, vanno a ricercare le origini indo-europee del vocabolo, e quindi se il significato è quello lì: zitti, buoni e ascoltate la lezione! Che valore ha (nemmeno voglio parlare di importanza) sapere che cosmos = ordine del mondo, deriva da < file ordinate di soldati < ordinati decorativamente, come < i fregi per le redini di un cavallo, cioè (fine corsa) < gli ornamenti per i capelli di donna = crocchio. Quindi, ragazzi, quando parlate di cosmo ora sapete che in origine era un chignon pre-socratico. Et gaudete parguli!” Mosse la testa sconsolatamente, quasi stesse recitando.

Il fare come dire o il dire come fare? “Fare all’amore: si può essere più, più insensati? O forse è così che l’ineffabile viene finalmente detto; però nessuno sembra accorgersi che l’amore del fare è lo stesso del dire, e quasi nulla ha in comune con il voler bene. Se mi ami perché vuoi e vogliamo fare all’amore, il voler bene è un misto di ringraziamento e nostalgia del bene (godimento) ottenuto. Il ragionamento sarebbe più chiaro se usassimo sinonimi ben marcati invece di usare uno stesso lemma omnicomprensivo.” Lambì con la lingua il mozzicone di sigaro che si stava infradiciando: gli piaceva quel gusto dolciatro amarognolo acre; gli vennero alla memoria immagini di argini alti e campi con sparsi alberi e silenzi, forse perché i suoi primi e gli ultimi toscani li aveva fumati in campagna, il sigaro che lo rimandava al giallo del fieno e all’odore di stalla. “Di mucche, i cavalli hanno altro odore.” E veloce come un rewind si ricordò della storiella del passero tradito che spara alla compagna (passera, ovviamente, che è un’allegoria – o metafora? – della vulva) uccidendola, con la morale esopica: “Quando l’uccello tira, sì che è vero amore!” Ridacchio silente – incredibile come alcune frasi rimangano impresse nella mente, quel che non gli riusciva era ricordare barzellette – “e molto altro”, si rammaricò.

“Perché mai c’è tutto questo bisogno di amore parlato, detto, vaneggiato? Se l’amore che vogliamo è attenzione e cura, o voluttà e sesso, o predilezione ed egoismo, o stolida abnegazione (alcuni non potendo essere felici, trovano più facile e rapido soffrire), chiamiamoli, palesiamoli con il loro nome, e cognome! Amo, amo, amo a cominciare dai propri genitori per finire al cane, dal proprio lavoro alla pizza, dal ballare alla pesca, da Dio ai panda; tutta una profusione d’amore come bibite analcoliche al supermercato: così uguali, così diverse! Se Abelardo chiede ad Eloisa se lo ama ancora, che cosa realmente chiede & vuol sapere?” Si immaginò a scrivere sulla lavagna (ma perché ora la vedeva verde?) le quattro risposte di prammamita, a-b-c-d, per i test  a scelta multipla: a) sarai ancora la mia domestica?; b) sei disponibile per un amplesso?; c) continui a pensare che sono un grande scrittore?; d) mi perdoni se sono stato con bagasce spendendo i tuoi soldi? Potevano essere veritiere tutte e quattro, no good ! Ecco, e se lei risponde: “Ti voglio ancora bene.” Che cosa gli nega o che cosa ancora concederà e farà per Abelarduccio suo? a) le faccende domestiche; b) decidere quando fornicare; c) dargli fiducia e stima; d) essergli fedele. “Dunque non mi ami più?”, è sempre Abelardo a chiedere, questa volta più drammaticamente, ovverossia furbescamente poiché ha compreso che qualcosa è rimasto del primitivo Amore (con la maiuscola, tanto per capirci) e quindi gioca la sdolcinata carta romantica, quindi da titubante diventa viscido, “E quindi la battuta come la si dovrebbe proferire? Con voce un pochino tremula, sguardo fra l’umile e lo speranzoso, spalle curvate in avanti. Ciack! Ma che vado a pensare!” L‘uomo rimproverò se stesso per quelle divagazioni ... ovvie in una notte d’estate, la pancia ancora pesante per la cena prolungata e nessun ascoltatore o interlocutore che reclamasse coerenza. In prima serata ce n’erano anche troppi, ma inaciditi, pronti a rifarsi sul primo ignaro cane di passaggio. Come diceva saggiamente l’adagio : fra moglie e marito non mettere il dito, né un grissino.

“Dio li fa e poi li accoppia.” Il detto si adattava perfettamente alla coppia che stava percorrendo la piazza allontanandosi perpendicolarmente dall’uomo che li osservava sorridendo mesto. “Due ciliege; meglio, due pesche.” I due erano bassini e grassotelli, abbracciati alle spalle: le loro circonferenze non permettevano un allacciamento ai fianchi. “Due puffi, due puffi in amore.” Sorrise fra l’illanguidito e il riflessivo. “Due puffi puffanti puffosamente.” Rise breve, ma di gusto. “Io puffo, tu puffi, egli ... Non ti puffo più! Ecco: i sinonimi che divenivano omonimi, e forse questo avrebbe reso la discussione della serata meno turbolenta e più chiara. Certo, perché almeno le sfumature degli amare e voler bene e preoccuparti di me e convivere avrebbero rimandato direttamente al concreto fare nella comprensione del contesto del battibecco. Non puffiamo più come prima avrebbe voluto dire che ...? Che puffo e puffo: non puffi più no! Beh, in pratica era avvenuto lo stesso perché si erano usati indifferentemente i sinonimi e le ramificazioni del significato di amore/amare aumentando l’incomprensione, anzi l’irrigidimento delle posizioni dei protagonisti litigiosi. Che puffata!” La coppia era sparita alla vista; diede l’ultima lappata allo spuntone di sigaro ormai divenuto molle per la salivazione. Che cosa avrebbe potuto dire per razionalizzare la discussione, per rendere meno inane lo scambio di recriminazioni, biasimi, invettive e insolenze? Adesso che ci ripensava: nulla. Non stavano cercando di risolvere un problema, ma di porre in tavola la questione – this is the question – che forse non ammetteva soluzioni, per lo meno matematiche, ossia razionali. L’emotività è in sé irrazionale, figuriamoci quando il fuoco del rancore la vivifica, la galvanizza. Si congratulò di non essere intervenuto nella discussione; non era parte in causa, benché razionalmente ... “Agh, come calmare a parole suadenti due cani che si azzuffano!” Probabilmente avrebbe gettato acqua sul fuoco, ottenendone un effetto contrario. “Amare, con l’affilata lama della lingua pronta a colpire, a ferire.” Quante volte si era trovato lui stesso nell’impossibilità di mettere il diverbio sul piano, sui binari, dello scambio di idee. Lanciarsi accuse verbali, più contundenti di pietre, serviva unicamente a farsi male; ma tanto era: a barca affondata non serve sassola, come si diceva lì, in quel ridente villaggio di pescatori. Si poteva anche aggiungere che: tutti i nodi vengono al pettine – e fanno male incontrandoli pettinandosi. E allora, che fare? Lui che cosa aveva fatto? Che cosa aveva detto? Come aveva risolto il problema? Gordianamente. Magari! Con il senno di poi, certamente. “Perché amare in fondo cos’è? Obnubilamento.” Ripetè il vocabolo a fior di labbra, prolungando la sonara b staccata dalla n. “Ma non è nemmeno questo ché nel gioco si ha lo stesso meccanismo di perdita della coscienza e della realtà, fine a se stesso: si gioca per giocare, per il piacere di, mentre nello scambio di amore sembra implicito un tempo senza fine –Ti Amerò per Sempre, Eterno Amore – e un ricavo proveniente da fantasie e sogni per lo più inespressi. Due cuori e una capanna non regge nemmeno nella convivenza di una coppia di criceti. Un mito, fra i tanti.” Assenti a se stesso scuotendo la testa.

Il pezzetto di tabacco umido gli si era appiccicato ai due polpastelli del pollice e indice sinistro; si guardò intorno per individuare un cestino per le immondizie. Io amo la mia città! Con un cuore rosso scuro disegnato a sostutuire iconicamente il verbo. “Amare era anche quello: un cuore, e buone maniere, un certo rispetto, diciamo. Quindi se amo la mia città devo muovere il culo fino al cestino invece di lasciare cadere questa poltiglia di tabacco qui al suolo fra i tanti mozziconi gialli di sigaretta. La amo,  non la amo, poco poco, non me ne frega proprio, ...” Si alzò, ma conseguì a mettersi in piedi solo con il secondo scatto di reni; il cestino era stracolmo di involti di plastica e coppette di gelato, in una di queste lasciò cadere il minuscolo resto del sigaro, sospirando. “Se mi compri un gelato – canticchiando a bocca chiusa si diresse verso il lungomare – che sia proprio gelato, con le labbra gelate, sì, sì, a cuore a cuore ti bacerò!” Ecco, questo era parlare chiaro, semplice, diretto: do ut des. Il lungomare era deserto; e il mare non si vedeva né si udiva: era un lungomare senza orizzonti, come i flirt estivi; e quelli che sembravano alberi, erano arbusti cresciuti di “tamerici salmastre ed arse”, recitò fra sé, non ricordando nessuna Ermione in particolare, ma le figlie che gareggiavano nelle minuscole biciclette in un lungomare altrettanto deserto nel sole di primavera. Le amava? Bloody Hell! Aveva avuto un battibecco furioso in inglese, yes!, sull’argomento, con un’irritazione in crescendo perché non vedeva il nesso fra il suo amore paterno leggermente differenziato verso le figlie, e quello scoppio di ira biliosa della sua che? Innamorata? “Figuriamoci se mi odiava! Sei in love con qualcuno, make love con il medesimo, ti scambi worlds of love, e poi gli pianti le dita sugli occhi perchè non ama alcuni come altri avrebbero, long long time ago, dovuto lieben dich! Jesus.” E ricordava come subitamente nel suo dietrofront e allontanamento veloce nella direzione opposta, imprecando in due lingue, si fosse reso conto che lì di amore non ci fosse nemmeno il vuoto a perdere. E l’altra che prima piantava grane, si incazzava, ti sputava più o meno metaforicamente in faccia e poi, poi voleva fare la pace, a letto. Amore: che cosa meravigliosa!

L’aria s’era fatta fresca e umida, l’uomo srotolò le maniche della camicia, ma non le abbottonò; avrebbe fatto un ampio giro, “itinerario B”, per tornare all’appartamento, e avrebbe mangiato della frutta: aveva gola e bocca secche, quasi avesse parlato ad alta voce, ”L’amore certe volte è seccante”, pensò, e rise scioccamente del banale calembour, il che lo fece tossire.

Servono i casi personali? Creano rumore nell’analisi, benchè, ovviamente, il proprio vissuto condiziona, più o meno inconsciamente, non solo le conclusioni, ma la ricerca stessa; fatalmente si cerca la conferma della propria idea, teoria, tesi iniziale, si accumulano giustificazioni, esempi, fatti: “... e la gallina che ripete il suo verso”. Non è la risposta a un problem solving, bensì la giustificazione della propria personale soluzione, che può funzionare, concretamente. Se i sostantivi divenissero verbi, se il dire venisse dal concreto fare espletato, ci sarebbe una comprensione o intelligibilità maggiore, ma la chiarezza, ovvero la unidirezionalità del significato avrebbe sempre la variante della decodificazione del ricevente; è un po’, tanto per capirci, come le traduzioni elettroniche con i loro risibili strafalcioni. “Ma anche l’atto in sé non sfugge a interpretazioni multiple e divergenti, anzi la stessa azione ha motivazioni ambigue, come il monaco del Padiglione d’oro che corre dalla madre in visita perché prima la incontra e prima finisce la visita, o il perverso protagonista dell’Arancia Meccanica, che s’appasiona alla lettura del Vangelo dilettandosi del racconto della crocifissione ... Inanità della conoscenza? La Verità che è un coacervo di verità disparate e talora in conflitto tra loro? E perché io me la devo prendere per l’ottusità o ignoranza o cecità o immaturità o imbecillità altri?”

Espirò prolungatamente quasi che con l’aria che faceva uscire dai polmoni se ne andassero le tossine del suo malessere. “Chi più capisce, più patisce. La nonna aveva, ha ragione; resta la pena e l’irritazione dopo aver gustato il frutto della conoscenza. Cacchio! Com’era simile alla conoscenza carnale, e l’espressione doveva essere nella Bibbia ... la conobbe o qualcosa del genere. Bellissimo; sublime! E la sciagurata rispose. Altra sintesi che è ... è un ipertesto, no, cioè simile a un link ... Rispose ... sciagurata ... conoscenza ...” Gli venne voglia di cantare, gli punse vaghezza di saltare sul muretto che fiancheggiava, basso, il largo marciapiede, ma desistì nella consapevolezza delle ginocchia arrugginite. “I’m just mad for Saffron, Saffron is mad about me, I’m just ... They call me mellow yellow ... Quite right ... Conoscenza! Ed ora che sappiamo tutto, scivoliamo sulle bucce di banana del tedio, della ripetitività, del già etc. etc. Scrivere poesia d’amore a 33 anni, a 44, a ... per la 3ª, 4ª, 8ª innamorata: è possibile? Che amore è mai? Che innamoramento può essere? Che – sogghignò – afflato? I’m mad about Saffron ...” Cantinuò a canticchiare facendo isolati passi di danza intrecciando i piedi, fosse stato con qualcuno si sarebbe esibito, ma solo, nella notte, alla sua età: più pazzo che ubriaco lo avrebbero giudicato; non che se ne importasse, ma l’irritazione che ancora gli pesava nello stomaco lo rendeva propenso a mandare a qual paese qualsiasi persona avesse commentato il suo fare – benchè non ci fosse anima viva .. o perché appunto non c’era pubblico? Yin e Yang; comunque aveva già dato in fatto di pazziare, un po’ di calmo anonimato o calma scialba era da preferire ora, non per stanchezza ma per una certa noia o inanità.

Era già passato sgassando il solito idiota inibito sessuale, poco importa se con o senza una femmina a lato – metti un tigre nel motore e il cervello al macero. Percorse il doppio passaggio pedonale e s’avviò nel silenzio dell’esiguo marcepiede e la penombra di alberi esili che lo costringevano  comunque a passare di sgembo – con tutto lo spazio che avevano avuto a disposizione cinquant’anni prima! Non avrebbe incontrato nessuno di sua conoscenza: a quell’ora o dormivano o sedevano stravaccati guardando torpidi il televisore o sedevano al computer cliccando cliccando ... “Gran bella cosa internet, ma era come il vino: l’abuso intontiva.” Girò l’angolo, la via dei negozi era deserta, le vetrine già oscurate ché ormai l’unico interessato era la guardia notturna; una minuscola pizzeria al taglio ancora ospitava alcuni giovani che parlottavano trascicando esclamazioni. La maggior parte delle vetrine metteva in mostra articoli femminili: non perché le donne amino  far shopping, ma perché godono naturalmente, non è una loro perversione, no, farsi invidiare dalle amiche, conoscenti e sconosciute. Amare/godere: sinonimia o consequenzialità? Se amo, devo godere, e se godo ... forse sto banalmente abbuffandomi di pizza al taglio. “Amore come palliativo, placebo o droga figli-dei-fiori-che-non-pensano-al-domani? Nel dare o nel ricevere? Poiché una cosa è amare e, ben altra, essere amati. Finchè dura; in ogni caso lo stato di grazia, o disgrazia o ottundimento finisce, come le vacanze, e la colpa del ritrovarsi nella quotidianità becera e piatta, che poi è quella di prima dell’innamoramento né più né meno, ricade sullo sventurato e probabilmente innocente partner che non ama più come prima. Me ama, me brama e via di seguito, non volendo rendersi conto che tutto passa e va, non solo, ma che la stessa pappa diaria – caviale o ceci – viene a noia e comunque se ne perde man mano il sentore. Che poi la stanchezza, la disattenzione, la sazietà facciano scoppiare la bolla di sapone, è logico, naturale, inconfutabile. Perché non lo si capisca e quindi ci si rifiuti di accettare la realtà e si faccia sempre e comununque ricadere la responsabilità sull’altro/a, penso sia una deficienza culturale, e linguistica se prendiamo la parola come vettore di concetti, di ideologia. Il dire che presuppone e implica un fare fantasmatico, vagheggiato, etereo, da romanzetto rosa. E già il rosa è trasudante ideologia e condizionamento per l’altra metà del cielo. Che compulsivamente viene a comprare i propri ammennicoli qui. Mese dopo mese; altro mistero: la moda.”

Si fermò a guardare l’ esposizione di bikini nella penombra d’una vetrina – bei disegni ... poi esterefatto si allontanò con uno sbuffo di incredulità: poteva essere che due straccetti costassero quanto un vestito maschile, completo di panciotto?

La gelateria all’angolo stava chiudendo; attraversò la strada. L’orologio-termometro segnava appena un grado in meno di prima, la brezza del mare qui non arrivava. Notte d’estate. Doveva decidersi ad entrare in acqua, ma da solo non trovava alcun piacere: era un mare per giocarci con l’acqua bassa e il fondale di sabbia fine. Giocarci con chi? Figuriamoci se la Regina Madre lasciava il proprio ruolo di polena pinta e ripinta per sguazzare nell’acqua non proprio limpida, mioddio!, del mare. Un’esclamazione di stizza gli increspò la fronte: finale di serata? Sbuffò prendendo le chiavi dalla tasca. Nei gradoni presso l’edificio una coppia giovane stava scombiandosi effusioni allacciata anche con gli arti inferiori mentre un’altra, più in là stava bisticciando animatamente cercando di non alzare la voce. “OM! Yoga o Kamasutra in jeans? Ed ecco lì un altro esempio, un altro anello della sempiterna catena del bisticcio amoroso. Che palle, però! A-mo-re.” Aprì il portone e ne accompagnò la chiusura automatica perché non facesse il solito sgradevole rumore di vetro e ferraglie. Si mise a sbuffettare facendo un po’ anche schiaccare le labbra un motivetto di cui non sapeva la provenienza; schiacciò il bottone di chiamata dell’ascensore. “Anche questa è fatta. - pensò quando fu nella gabbiola – Tenera è la notte; per chi dorme.”

 

Giancarlo Varagnolo

São Paulo, 3 maggio 2014.

·         La canzone citata è di Donovan.

·         L’altra è un surf  cantata da Mina.

 

 


“L’amore è non sapere di cosa
si sta parlando.”
 
Se era arrabbiato? Era furente. Stava per scoppiare. Le parole non pronunciate gli si rimestavano nello stomaco e le tempie gli pulsavano per le frasi che roteavano nella sua testa come trottole vorticanti multicolori. Imprecò a mezzo nell’aprire il portone d’ingresso dello stabile, ironicamente infastidito dal contrattempo nell’inserire la chiave che deviava la sua irritazione dal soggetto principale.
Davanti alla porta dell’ascensore emise uno sbuffo che somigliava ad un sospiro. Premette il bottone di chiamata blandamente e attese quietamente: la regolarità delle funzioni del mezzo ponevano le sue sensazioni in uno stato di stasi, di apoché, di vuoto mentale, gli accadeva in aereo, in autubus o metropolitana –sempre che non divesse tenersi allertato per scendere alla fermata desiderata; era “trasportato”, la velocità e il percorso e il tempo d’impiego non dipendeva da lui. Quando fu nell’appartamento scattò come una molla, meglio, come una di quelle palline superelasti che rimbalzanti infinitamente con un solo lancio.
“Imbecilli!” Ecco: finalmete poteva dirlo ad alta voce, poteva far uscire dal suo corpo un poco dell’ irritazione trattenuta. “Im-be-cil-li.”  Ma già era un sotto-voce; e poi una ripetizione senza suono, mentale. Scelse senza esitazione il tipo di sigaro fra i tre o quattro che giacevano nelle loro scatole: era da almeno un’ora che pregustava, no, che abbisognava di un paio di boccate di Toscano Extra Vecchio. E un gole di grappa, gelata.
“Amore ..., agh!” Riempì a metà il minuscolo bicchiere, lo portò al naso per inspirarne il profumo e quindi emise un respiro di soddisfazione nell’ assaporarlo un poco. Dalla finestra semiaperta entrava la musica ritmata lontana di una canzonetta. Intinse la punta del sigaro nel bicchiere e bevve facendo scorrere il liquore a rinfrescargli tutta la bocca, poi mise il sigaro fra le labbra.
Scendendo già altri pensieri gli fluttuavano in testa, dopotutto s’era liberato ... Beh, si poteva dire che gli era impellente sputare un bolo di saliva e lo aveva fatto; punto.
Il viale era silenzioso e deserto, mezzanotte passata, ma era estate; all’inizio del viale v’era una pizzeria take away  con parecchi clienti, gruppetti di giovani se ne stavono in piedi chiacchierando nello spiazzo di fronte. L’uomo girò sulla destra senza guardare nessuno, curioso solo di leggere la temperatura nell’orologio digitale all’angolo della piazza che ora gli si allungava a lato. +23º : non molto per una notte di piena estate.
Fu fortunato a trovare una panchina libera tutta per lui: la “puzza” del sigaro – fumato da altri - non era gradita nemmeno a lui; l’accese.
“Amore ... amare ...” Come si fosse arrivati a parlare su tale argomento, a discettare, non se lo ricordava; era stata un’esplosione quasi improvvisa con tutti che volevano dire la loro. Tutti i commensali della tavolata al ristorante, i suoi amici che programmavano una cena fuori almeno ogni due settimane, ed era la calda estate ... Coppie di amici, o amici accoppiati ... “maschio e femmina che vivono insieme, per copulare o per aver già consumato”. La fortuna di essere single lo salvava dalla divisione di pizze, bibite e scambi veloci ma pungenti ed acri con l’altra metà; quella sera s’era trovato nell’occhio del ciclone Amare Significa, con acquazzoni sparsi di Amare È  e grandinate di Quello Non È Amore.  Se si fosse stati all’aperto e lui avesse avuto qualcosa da fumare, probabilmente non sarebbe intervenuto nella discussione e certamente avrebbe non ascoltato. È abbastanza sgradevole trovarsi coinvolti in dissapori altrui, se poi i termini delle rivalse e rimproveri sono palesemente di parte o scorretti, diventa moralmente problematico restarsene fuori, neutrale. Avrebbe potuto anche fare l’osservatore esterno, un bird watcher (aveva prestato La Scimmia Nuda nella traduzione francese, ma non gli avevano ancora ritornato il libro), se fosse stato più pettegolo e meno linguista, più curioso e meno pedante. Capiva dove eveva origine quel battibecco che aveva portato allo schierarsi dei maschi in difesa dalle rimostranze se non accuse, con rinfacciamenti non proprio velati, delle donne; capiva perché c’era passato, il che lo rendeva insofferente a questo genere di litigi trasudanti rancore represso – perché si continuava a stare assieme quando ormai la coppia era di opposti? Perché, si chiedeva in una perplessità feroce, non si parla chiaramente, direttamente e nel dovuto momento? Perché si aspetta di essere saturi fino a scoppiare, inghiottendo e sputacchiando ogni tanto in faccia all’altro?
Perché ... probabilmente è banalmente umano: socialmente così è – e la psicologia & c. è lì ad aiutarvi dopo. Si raccomanda di usare il preservativo e si insiste nell’igiene orale, ma nessuno mai insegna come pulirsi propriamente il culo e interagire con il partner. Perché la coppia (famiglia) se nessuna regge, tiene, dura?
Questo l’uomo non lo aveva pensato quella sera: erano elucubrazioni passate, meditazioni d’altri giorni, pagine di diario già scritte. Una cicatrice; l’inane esperienza. Un buon senso che rasentava l’indifferenza, l’occhiata erratica.
Alla terza boccata l’aria aspirata attraverso il cilindro di tabacco s’era inumidita portando con sè il gusto buono del sigaro. “L’amore! – pensò l’uomo canzonatorio, soffiando compiaciuto il fumo del sigaro - Finché usiamo i sostantivi non andiamo molto in là con la concretizzazione del dermine; ok: una rosa è una rosa è una rosa, ma l’amore non è che astrazione, meno reale di un qualsiasi nanerottolo così di moda oggi nei fumetti. L’amore ... Me ne dia un tot!” Guardò la punta del sigaro e diede un’occhiata alla piazza: c’era ancora parecchia gente in giro, nel lato apposto, verso il lungomare, i tavolini del bar d’angolo all’aperto sembrano ancora tutti occupati. Si lasciò andare nell’assaporare il sigaro, se continuava a far lavorare il cervello perdeva il piacere della fumata – non gli riusciva di concentrasi su più cose contemporaneamente, e poi il saggio diceva: ”Se mangi, mangia, se bevi ...”. E amore era amare; e amare era che? Continuò a fumare appoggiandosi allo schienale basso e scomodo della panchina e allungandovi il braccio sinistro, si sentiva soddisfatto ma senza un oggetto o motivo definito; tenendo il sigaro tra le labbra distese l’altro braccio sulla schienale e stese le gambe leggermente divaricate; e tese i muscoli più volte sentendo scricchiolii che lo fecero sorridere e per poco cadere il sigaro dalla bocca.
Affermazioni, interrogativi e sarcasmi della serata gli ritornavano alla memoria e s’accorse che il verbo usato non era amare bensì voler bene a. Sinonimi, ma non con significati simili. E non è una caratteristica della lingua italiana d’aver almeno due lessemi per “amare”, ma ogni scimmia sul proprio ramo – e l’uomo tolse il mozzicone di sigaro di bocca, senza staccare il gomito dallo schienale della panchina, e sospirò. “C’è il sinonimo di lieben o solo fraintendimenti e incomprensioni?”
Il pezzettino di sigaro s’era spento, l’uomo era rimasto a braccia spalancate e gambe, in calzoni chiari, distese a guardare la gente passare fuori della piazza. Un altro bicchierino ..., no, bastava un’acqua e menta gelata, dopo, a casa, amore mio, ché l’amore è sempre mio. Ottenebrati!
Non c’era niente come le notti d’estate per le ricordanze. “Me ama, me brama, me vol ben, me fa i corni.” Cosa ricordava poi? Quasi nulla: la calle stretta, il pettine e la spazzola con il dorso rosa di vellutino (regalo di che?), e un senso di stupore per lo sciupìo gratuito di così tante margherite. “Me ama, me brama. ...” - e i bianchi minuscoli petali del fiore venivano strappati, finchè fra le dita di sua cugina restava solo il piccolo bottone giallo – “me vol ben, ...”.  L’aveva amata? No – parola troppo grossa per un sentimento così repentino – ma “bramata” sì, benchè anche qui, per quel che ricordava, era un desiderio vago che non arrivava alla concupiscenza; e non le aveva voluto bene ché allora non ne conosceva il signifacato, il sentire. Quanto a tradirla ... Non le aveva nemmeno dato un bacio, Lory lo attraeva e lo intimidiva, dopotutto aveva un anno più di lui.
Succhiò lo spuntone spento del sigaro, sorridendo vago: non ricordava il volto di sua cugina, vedeva la stretta calle in fondo alla quale c’era la casa della zia, l’appartamento all’ultimo piano. Non si erano più incontrati dal primo o secondo anno delle superiori –una vita. “Me ama, me brama, ...” Chi, ora? Amare: cioè?
E le voci litigiose, le frasi recriminatorie, i gesti spazientiti del dopo cena ritornarono alla mente come un improvviso soffio di vento, sgradevole. Ma si erano mai amate quelle coppie? A loro modo, come ora si sopportavano, rancorose, ognuno per propri motivi, e giustificazioni. L’odio che stava per entrare in scena; l’odio: l’altra faccia dell’amore, si dice. Cominciamo da qui, dall’altra faccia dell’amore? Dal voler male invece che voler bene? La “brama” sembrava però restare. Accavallò le gambe, ma desistette riallungandole: faceva caldo, la brezza di mare si sarebbe levata più tardi. Non amava l’umidità; non amava un sacco di cose, probabilmente non amava alcunchè, né alcuno. Sbuffò – “Amare. E scosse la testa scettico, irrisorio, supponente. “... poco poco, me fa i corni.” Trattenne la risatina per non far cadere il mozzicone di sigaro che teneva incollato all’angolo della bocca, “Ed è qui che ti voglio! Partiamo da una foia erotica per arrivare a un amore che è lavare i piatti a turno (lavastoviglie non permettendo). Ebeti. E se i due chiamassero le cose con il loro nome? E se la gente non si dimenticasse della realtà delle cose? E se dicessimo pane al pane o, meglio, molto meglio, non inventassimo-dicessimo parole preservativo?” Fece una smorfia levandosi il mozzicone di bocca – il vocabolo gli era venuto lì quasi ovvio nel contesto di pensieri sessuali, ma non gli piaceva né rendeva l’idea di obnubilamento, “Che è il contrario di disvelamento; togliamo i veli e non solo le mutande, perdiana!” L’imprecazione, volutamente formale e piana, lo fece sospirare mentre si raddrizzava contro lo schienale della panchina. “L’amore è una cosa meravigliosa; sempre? Prima? Dopo? Durante? Prima e dopo di che? Oddio, sto perdendo il filo.” Gli era sembrato così semplice fare lo schemino, bianco su nero, nella sua lavagna mentale mentre gli altri per poco non si accapigliavano; ora ebbe una sensazione di smarrimento, di impasse –beh, non c’era riuscito nemmeno Platone a definirlo l’amore ... Duemila anni fa, comunque. “ora, solitamente, i filosofi, o che dir si voglia, moderni prendono il lemma da trattare, come fosse una cavia, e lo sezionano in sintagmi qurdando nel dizinario; quelli che vogliono parere più informati, più sapienti, più eruditi, più nella verità, vanno a ricercare le origini indo-europee del vocabolo, e quindi se il significato è quello lì: zitti, buoni e ascoltate la lezione! Che valore ha (nemmeno voglio parlare di importanza) sapere che cosmos = ordine del mondo, deriva da < file ordinate di soldati < ordinati decorativamente, come < i fregi per le redini di un cavallo, cioè (fine corsa) < gli ornamenti per i capelli di donna = crocchio. Quindi, ragazzi, quando parlate di cosmo ora sapete che in origine era un chignon pre-socratico. Et gaudete parguli!” Mosse la testa sconsolatamente, quasi stesse recitando.
Il fare come dire o il dire come fare? “Fare all’amore: si può essere più, più insensati? O forse è così che l’ineffabile viene finalmente detto; però nessuno sembra accorgersi che l’amore del fare è lo stesso del dire, e quasi nulla ha in comune con il voler bene. Se mi ami perché vuoi e vogliamo fare all’amore, il voler bene è un misto di ringraziamento e nostalgia del bene (godimento) ottenuto. Il ragionamento sarebbe più chiaro se usassimo sinonimi ben marcati invece di usare uno stesso lemma omnicomprensivo.” Lambì con la lingua il mozzicone di sigaro che si stava infradiciando: gli piaceva quel gusto dolciatro amarognolo acre; gli vennero alla memoria immagini di argini alti e campi con sparsi alberi e silenzi, forse perché i suoi primi e gli ultimi toscani li aveva fumati in campagna, il sigaro che lo rimandava al giallo del fieno e all’odore di stalla. “Di mucche, i cavalli hanno altro odore.” E veloce come un rewind si ricordò della storiella del passero tradito che spara alla compagna (passera, ovviamente, che è un’allegoria – o metafora? – della vulva) uccidendola, con la morale esopica: “Quando l’uccello tira, sì che è vero amore!” Ridacchio silente – incredibile come alcune frasi rimangano impresse nella mente, quel che non gli riusciva era ricordare barzellette – “e molto altro”, si rammaricò.
“Perché mai c’è tutto questo bisogno di amore parlato, detto, vaneggiato? Se l’amore che vogliamo è attenzione e cura, o voluttà e sesso, o predilezione ed egoismo, o stolida abnegazione (alcuni non potendo essere felici, trovano più facile e rapido soffrire), chiamiamoli, palesiamoli con il loro nome, e cognome! Amo, amo, amo a cominciare dai propri genitori per finire al cane, dal proprio lavoro alla pizza, dal ballare alla pesca, da Dio ai panda; tutta una profusione d’amore come bibite analcoliche al supermercato: così uguali, così diverse! Se Abelardo chiede ad Eloisa se lo ama ancora, che cosa realmente chiede & vuol sapere?” Si immaginò a scrivere sulla lavagna (ma perché ora la vedeva verde?) le quattro risposte di prammamita, a-b-c-d, per i test  a scelta multipla: a) sarai ancora la mia domestica?; b) sei disponibile per un amplesso?; c) continui a pensare che sono un grande scrittore?; d) mi perdoni se sono stato con bagasce spendendo i tuoi soldi? Potevano essere veritiere tutte e quattro, no good ! Ecco, e se lei risponde: “Ti voglio ancora bene.” Che cosa gli nega o che cosa ancora concederà e farà per Abelarduccio suo? a) le faccende domestiche; b) decidere quando fornicare; c) dargli fiducia e stima; d) essergli fedele. “Dunque non mi ami più?”, è sempre Abelardo a chiedere, questa volta più drammaticamente, ovverossia furbescamente poiché ha compreso che qualcosa è rimasto del primitivo Amore (con la maiuscola, tanto per capirci) e quindi gioca la sdolcinata carta romantica, quindi da titubante diventa viscido, “E quindi la battuta come la si dovrebbe proferire? Con voce un pochino tremula, sguardo fra l’umile e lo speranzoso, spalle curvate in avanti. Ciack! Ma che vado a pensare!” L‘uomo rimproverò se stesso per quelle divagazioni ... ovvie in una notte d’estate, la pancia ancora pesante per la cena prolungata e nessun ascoltatore o interlocutore che reclamasse coerenza. In prima serata ce n’erano anche troppi, ma inaciditi, pronti a rifarsi sul primo ignaro cane di passaggio. Come diceva saggiamente l’adagio : fra moglie e marito non mettere il dito, né un grissino.
“Dio li fa e poi li accoppia.” Il detto si adattava perfettamente alla coppia che stava percorrendo la piazza allontanandosi perpendicolarmente dall’uomo che li osservava sorridendo mesto. “Due ciliege; meglio, due pesche.” I due erano bassini e grassotelli, abbracciati alle spalle: le loro circonferenze non permettevano un allacciamento ai fianchi. “Due puffi, due puffi in amore.” Sorrise fra l’illanguidito e il riflessivo. “Due puffi puffanti puffosamente.” Rise breve, ma di gusto. “Io puffo, tu puffi, egli ... Non ti puffo più! Ecco: i sinonimi che divenivano omonimi, e forse questo avrebbe reso la discussione della serata meno turbolenta e più chiara. Certo, perché almeno le sfumature degli amare e voler bene e preoccuparti di me e convivere avrebbero rimandato direttamente al concreto fare nella comprensione del contesto del battibecco. Non puffiamo più come prima avrebbe voluto dire che ...? Che puffo e puffo: non puffi più no! Beh, in pratica era avvenuto lo stesso perché si erano usati indifferentemente i sinonimi e le ramificazioni del significato di amore/amare aumentando l’incomprensione, anzi l’irrigidimento delle posizioni dei protagonisti litigiosi. Che puffata!” La coppia era sparita alla vista; diede l’ultima lappata allo spuntone di sigaro ormai divenuto molle per la salivazione. Che cosa avrebbe potuto dire per razionalizzare la discussione, per rendere meno inane lo scambio di recriminazioni, biasimi, invettive e insolenze? Adesso che ci ripensava: nulla. Non stavano cercando di risolvere un problema, ma di porre in tavola la questione – this is the question – che forse non ammetteva soluzioni, per lo meno matematiche, ossia razionali. L’emotività è in sé irrazionale, figuriamoci quando il fuoco del rancore la vivifica, la galvanizza. Si congratulò di non essere intervenuto nella discussione; non era parte in causa, benché razionalmente ... “Agh, come calmare a parole suadenti due cani che si azzuffano!” Probabilmente avrebbe gettato acqua sul fuoco, ottenendone un effetto contrario. “Amare, con l’affilata lama della lingua pronta a colpire, a ferire.” Quante volte si era trovato lui stesso nell’impossibilità di mettere il diverbio sul piano, sui binari, dello scambio di idee. Lanciarsi accuse verbali, più contundenti di pietre, serviva unicamente a farsi male; ma tanto era: a barca affondata non serve sassola, come si diceva lì, in quel ridente villaggio di pescatori. Si poteva anche aggiungere che: tutti i nodi vengono al pettine – e fanno male incontrandoli pettinandosi. E allora, che fare? Lui che cosa aveva fatto? Che cosa aveva detto? Come aveva risolto il problema? Gordianamente. Magari! Con il senno di poi, certamente. “Perché amare in fondo cos’è? Obnubilamento.” Ripetè il vocabolo a fior di labbra, prolungando la sonara b staccata dalla n. “Ma non è nemmeno questo ché nel gioco si ha lo stesso meccanismo di perdita della coscienza e della realtà, fine a se stesso: si gioca per giocare, per il piacere di, mentre nello scambio di amore sembra implicito un tempo senza fine –Ti Amerò per Sempre, Eterno Amore – e un ricavo proveniente da fantasie e sogni per lo più inespressi. Due cuori e una capanna non regge nemmeno nella convivenza di una coppia di criceti. Un mito, fra i tanti.” Assenti a se stesso scuotendo la testa.
Il pezzetto di tabacco umido gli si era appiccicato ai due polpastelli del pollice e indice sinistro; si guardò intorno per individuare un cestino per le immondizie. Io amo la mia città! Con un cuore rosso scuro disegnato a sostutuire iconicamente il verbo. “Amare era anche quello: un cuore, e buone maniere, un certo rispetto, diciamo. Quindi se amo la mia città devo muovere il culo fino al cestino invece di lasciare cadere questa poltiglia di tabacco qui al suolo fra i tanti mozziconi gialli di sigaretta. La amo,  non la amo, poco poco, non me ne frega proprio, ...” Si alzò, ma conseguì a mettersi in piedi solo con il secondo scatto di reni; il cestino era stracolmo di involti di plastica e coppette di gelato, in una di queste lasciò cadere il minuscolo resto del sigaro, sospirando. “Se mi compri un gelato – canticchiando a bocca chiusa si diresse verso il lungomare – che sia proprio gelato, con le labbra gelate, sì, sì, a cuore a cuore ti bacerò!” Ecco, questo era parlare chiaro, semplice, diretto: do ut des. Il lungomare era deserto; e il mare non si vedeva né si udiva: era un lungomare senza orizzonti, come i flirt estivi; e quelli che sembravano alberi, erano arbusti cresciuti di “tamerici salmastre ed arse”, recitò fra sé, non ricordando nessuna Ermione in particolare, ma le figlie che gareggiavano nelle minuscole biciclette in un lungomare altrettanto deserto nel sole di primavera. Le amava? Bloody Hell! Aveva avuto un battibecco furioso in inglese, yes!, sull’argomento, con un’irritazione in crescendo perché non vedeva il nesso fra il suo amore paterno leggermente differenziato verso le figlie, e quello scoppio di ira biliosa della sua che? Innamorata? “Figuriamoci se mi odiava! Sei in love con qualcuno, make love con il medesimo, ti scambi worlds of love, e poi gli pianti le dita sugli occhi perchè non ama alcuni come altri avrebbero, long long time ago, dovuto lieben dich! Jesus.” E ricordava come subitamente nel suo dietrofront e allontanamento veloce nella direzione opposta, imprecando in due lingue, si fosse reso conto che lì di amore non ci fosse nemmeno il vuoto a perdere. E l’altra che prima piantava grane, si incazzava, ti sputava più o meno metaforicamente in faccia e poi, poi voleva fare la pace, a letto. Amore: che cosa meravigliosa!
L’aria s’era fatta fresca e umida, l’uomo srotolò le maniche della camicia, ma non le abbottonò; avrebbe fatto un ampio giro, “itinerario B”, per tornare all’appartamento, e avrebbe mangiato della frutta: aveva gola e bocca secche, quasi avesse parlato ad alta voce, ”L’amore certe volte è seccante”, pensò, e rise scioccamente del banale calembour, il che lo fece tossire.
Servono i casi personali? Creano rumore nell’analisi, benchè, ovviamente, il proprio vissuto condiziona, più o meno inconsciamente, non solo le conclusioni, ma la ricerca stessa; fatalmente si cerca la conferma della propria idea, teoria, tesi iniziale, si accumulano giustificazioni, esempi, fatti: “... e la gallina che ripete il suo verso”. Non è la risposta a un problem solving, bensì la giustificazione della propria personale soluzione, che può funzionare, concretamente. Se i sostantivi divenissero verbi, se il dire venisse dal concreto fare espletato, ci sarebbe una comprensione o intelligibilità maggiore, ma la chiarezza, ovvero la unidirezionalità del significato avrebbe sempre la variante della decodificazione del ricevente; è un po’, tanto per capirci, come le traduzioni elettroniche con i loro risibili strafalcioni. “Ma anche l’atto in sé non sfugge a interpretazioni multiple e divergenti, anzi la stessa azione ha motivazioni ambigue, come il monaco del Padiglione d’oro che corre dalla madre in visita perché prima la incontra e prima finisce la visita, o il perverso protagonista dell’Arancia Meccanica, che s’appasiona alla lettura del Vangelo dilettandosi del racconto della crocifissione ... Inanità della conoscenza? La Verità che è un coacervo di verità disparate e talora in conflitto tra loro? E perché io me la devo prendere per l’ottusità o ignoranza o cecità o immaturità o imbecillità altri?”
Espirò prolungatamente quasi che con l’aria che faceva uscire dai polmoni se ne andassero le tossine del suo malessere. “Chi più capisce, più patisce. La nonna aveva, ha ragione; resta la pena e l’irritazione dopo aver gustato il frutto della conoscenza. Cacchio! Com’era simile alla conoscenza carnale, e l’espressione doveva essere nella Bibbia ... la conobbe o qualcosa del genere. Bellissimo; sublime! E la sciagurata rispose. Altra sintesi che è ... è un ipertesto, no, cioè simile a un link ... Rispose ... sciagurata ... conoscenza ...” Gli venne voglia di cantare, gli punse vaghezza di saltare sul muretto che fiancheggiava, basso, il largo marciapiede, ma desistì nella consapevolezza delle ginocchia arrugginite. “I’m just mad for Saffron, Saffron is mad about me, I’m just ... They call me mellow yellow ... Quite right ... Conoscenza! Ed ora che sappiamo tutto, scivoliamo sulle bucce di banana del tedio, della ripetitività, del già etc. etc. Scrivere poesia d’amore a 33 anni, a 44, a ... per la 3ª, 4ª, 8ª innamorata: è possibile? Che amore è mai? Che innamoramento può essere? Che – sogghignò – afflato? I’m mad about Saffron ...” Cantinuò a canticchiare facendo isolati passi di danza intrecciando i piedi, fosse stato con qualcuno si sarebbe esibito, ma solo, nella notte, alla sua età: più pazzo che ubriaco lo avrebbero giudicato; non che se ne importasse, ma l’irritazione che ancora gli pesava nello stomaco lo rendeva propenso a mandare a qual paese qualsiasi persona avesse commentato il suo fare – benchè non ci fosse anima viva .. o perché appunto non c’era pubblico? Yin e Yang; comunque aveva già dato in fatto di pazziare, un po’ di calmo anonimato o calma scialba era da preferire ora, non per stanchezza ma per una certa noia o inanità.
Era già passato sgassando il solito idiota inibito sessuale, poco importa se con o senza una femmina a lato – metti un tigre nel motore e il cervello al macero. Percorse il doppio passaggio pedonale e s’avviò nel silenzio dell’esiguo marcepiede e la penombra di alberi esili che lo costringevano  comunque a passare di sgembo – con tutto lo spazio che avevano avuto a disposizione cinquant’anni prima! Non avrebbe incontrato nessuno di sua conoscenza: a quell’ora o dormivano o sedevano stravaccati guardando torpidi il televisore o sedevano al computer cliccando cliccando ... “Gran bella cosa internet, ma era come il vino: l’abuso intontiva.” Girò l’angolo, la via dei negozi era deserta, le vetrine già oscurate ché ormai l’unico interessato era la guardia notturna; una minuscola pizzeria al taglio ancora ospitava alcuni giovani che parlottavano trascicando esclamazioni. La maggior parte delle vetrine metteva in mostra articoli femminili: non perché le donne amino  far shopping, ma perché godono naturalmente, non è una loro perversione, no, farsi invidiare dalle amiche, conoscenti e sconosciute. Amare/godere: sinonimia o consequenzialità? Se amo, devo godere, e se godo ... forse sto banalmente abbuffandomi di pizza al taglio. “Amore come palliativo, placebo o droga figli-dei-fiori-che-non-pensano-al-domani? Nel dare o nel ricevere? Poiché una cosa è amare e, ben altra, essere amati. Finchè dura; in ogni caso lo stato di grazia, o disgrazia o ottundimento finisce, come le vacanze, e la colpa del ritrovarsi nella quotidianità becera e piatta, che poi è quella di prima dell’innamoramento né più né meno, ricade sullo sventurato e probabilmente innocente partner che non ama più come prima. Me ama, me brama e via di seguito, non volendo rendersi conto che tutto passa e va, non solo, ma che la stessa pappa diaria – caviale o ceci – viene a noia e comunque se ne perde man mano il sentore. Che poi la stanchezza, la disattenzione, la sazietà facciano scoppiare la bolla di sapone, è logico, naturale, inconfutabile. Perché non lo si capisca e quindi ci si rifiuti di accettare la realtà e si faccia sempre e comununque ricadere la responsabilità sull’altro/a, penso sia una deficienza culturale, e linguistica se prendiamo la parola come vettore di concetti, di ideologia. Il dire che presuppone e implica un fare fantasmatico, vagheggiato, etereo, da romanzetto rosa. E già il rosa è trasudante ideologia e condizionamento per l’altra metà del cielo. Che compulsivamente viene a comprare i propri ammennicoli qui. Mese dopo mese; altro mistero: la moda.”
Si fermò a guardare l’ esposizione di bikini nella penombra d’una vetrina – bei disegni ... poi esterefatto si allontanò con uno sbuffo di incredulità: poteva essere che due straccetti costassero quanto un vestito maschile, completo di panciotto?
La gelateria all’angolo stava chiudendo; attraversò la strada. L’orologio-termometro segnava appena un grado in meno di prima, la brezza del mare qui non arrivava. Notte d’estate. Doveva decidersi ad entrare in acqua, ma da solo non trovava alcun piacere: era un mare per giocarci con l’acqua bassa e il fondale di sabbia fine. Giocarci con chi? Figuriamoci se la Regina Madre lasciava il proprio ruolo di polena pinta e ripinta per sguazzare nell’acqua non proprio limpida, mioddio!, del mare. Un’esclamazione di stizza gli increspò la fronte: finale di serata? Sbuffò prendendo le chiavi dalla tasca. Nei gradoni presso l’edificio una coppia giovane stava scombiandosi effusioni allacciata anche con gli arti inferiori mentre un’altra, più in là stava bisticciando animatamente cercando di non alzare la voce. “OM! Yoga o Kamasutra in jeans? Ed ecco lì un altro esempio, un altro anello della sempiterna catena del bisticcio amoroso. Che palle, però! A-mo-re.” Aprì il portone e ne accompagnò la chiusura automatica perché non facesse il solito sgradevole rumore di vetro e ferraglie. Si mise a sbuffettare facendo un po’ anche schiaccare le labbra un motivetto di cui non sapeva la provenienza; schiacciò il bottone di chiamata dell’ascensore. “Anche questa è fatta. - pensò quando fu nella gabbiola – Tenera è la notte; per chi dorme.”
 
Giancarlo Varagnolo
São Paulo, 3 maggio 2014.
·         La canzone citata è di Donovan.
·         L’altra è un surf  cantata da Mina.
 
 
                            



                            

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