domenica 24 febbraio 2013

Mattutino.

Mattutino
Giancarlo  Varagnolo


Bruna il bagnava
la corrente, e famelici dintorno
affollavansi i pesci a divorarlo.
(Iliade, XXI)

         Ombre si dileguano levemente per il chiarore timido che entra di sbieco dalla grande porta aperta e di riflesso dall’alta finestra dai vetri polverosi. Silenzio; non proprio ché c’è il soffocato russare del monaco steso sulla massiccia tavola di legno lucido scuro e i trilli misti e frammisti di uccelli ai quali si sovrappone di quando in quando lo straziato grido d’un gallo. Non è il silenzio della notte, ma quello del buon mattino estivo. Suoni noti del risveglio, del sorgere del sole di un nuovo giorno.
         Un singulto, un’esclamazione mozzata, un respirare affannoso e il monaco si solleva sugli avambracci quasi cadendo dal tavolo.
         “O Signore, mio Dio, vienimi in aiuto. O Signore, non son degno ...” Si leva seduto, i piedi bruni in sandali logori sono a due spanne dal pavimento di cotto rosso; con un goffo movimento non riesce a scendere in piedi e cade in ginocchio con un gemito soffocato. E resta così, ginocchioni, poggiando la testa, dal capo quasi calvo, al bordo del tavolo.
         “Signore, dammi forza. Signore, fortifica il mio corpo, e la mia anima. Dacci aiuto contro il nemico, perché è vano ogni soccorso umano.” Il corpo ha un sussulto; poggia le mani scarne, nodose, abbronzate sul bordo del tavolo, le ampie maniche scendono mostrando avambracci dalla pelle bianca, e scuote la testa più volte, la fronte premuta contro il bordo di legno. “Signore, pietà; Cristo, pietà. Miserere nobis, miserere. Oh, mi rivolgo a Te, che sei la mia forza, perché Tu, o Dio, sei la mia difesa. Essi vagarono tutta la notte, urlando come cani, percorrendo tutta la città, avendo la bocca piena solo d’ingiurie che lanciavano su tutto.” Solleva il capo, lo sguardo perduto verso l’alto. “Perché tutto questo, perché? Sarà che realmente fate giustizia, o potenti del mondo? Sarà che giudicate rettamente, o figli degli uomini? No, perché nei vostri cuori commettete iniquità, e le vostre mani distribuiscono ingiustizia sulla terra”
         Nella stanza il chiarore indiretto della luce del sole ha fugato il buio, rimane la penombra di sempre nella sacrestia dai pesanti armadi di legno brunito; alcune sedie grandi con braccioli, due inginocchiatoi e un grande crocefisso, con il Cristo scolpito in legno dai colori sbiaditi, a cui il monaco dà le spalle.
         “Ogni cosa accade in Cielo e in Terra per la Tua santa volontà; la Tua possente e inscrutabile e divina volontà. Ma tutto quel sangue, Signore? Tutto quell’orrore ... Ho visto violenza e sopraffazione sulle mura della città giorno e notte e nel suo interno ora solo ingiustizia e oppressione.” Poggia una mano sul volto, poi stancamente si alza in piedi appoggiando le mani al tavolo; un’espressione di dolore gli si disegna in faccia. “Anche contro un Tuo umile servitore hanno infierito senza alcun rispetto per l’abito che indosso. Ma quale clemenza ci si può aspettare da fiere scatenate? Già è molto se ho salva la vita. Benedetto sia il Signore che udì la voce delle mie suppliche; in lui confidò il mio cuore e fui soccorso. Il Signore è la mia forza e il mio scudo!”
         Si dirige lentamente verso un inginocchiatoio rivolto verso la parete; vi si inginocchia trattenendo un gemito. “Agello di Dio, che togli i peccati dal mondo, abbi pietà di noi. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, donas nobis pacem. Agnus Dei, - la voce gli trema, s’affioca – dona a loro, eis, eis, la pace.” Porta le mani al petto, e poi al volto. “Dio onnipotente, dal quale viene la bontà e la bellezza del creato, fa che iniziamo questo giorno con animo allegro e realizziamo le nostre opere mossi per l’amore di te e dei fratelli. Nella sera, viene il pianto, ma al mattino ritorna l’allrgria.”
         Tace, la faccia nascosta fra le mani. La luce del sole illumina la sacrestia; gli uccelli hanno smesso i loro trilli del risveglio. Nel silenzio il gracchiare del legno dell’inginocchiatoio risuona sgradevole quando il monaco si alza. “Nel mattino ascolterai la mia voce, nel matino Ti espongo la mia causa; Ti cerco e Ti guardo. Il Signore è la mia luce e la mia salvezza, che temo? Il Signore è il protettore della mia vita, di chi aver paura?” Ed il Cristo crocefisso è lì, sopra la porta che conduce alle stanze interne della sacrestia, in una penombra pacata. In un canto un bacile e un orciolo; il monaco vi si dirige e nel vedere l’acqua che riempie il bacile ha un moto di dolore che gli fa chiudere gli occhi: il liquido è dello stesso colore vermeglio delle mattonelle del pavimento, l’acqua è diventata sangue, ma non il sangue versato dal Cristo. “Deus, o Dio, mio salvatore, liberami dalla pena di questo sangue versato, e la Tua misericordia la mia lingua loderà.”
         Il monaco si guarda le mani, le congiunge, le torce, le stende in avanti, gli occhi sbarrati. Nella luce mattutina potrebbe vedere le striature brune sulle maniche, le macchie scure sul petto e il grembo della cocolla, il sudiciume al bordo della veste; e i piedi con secchi grumi di sangue. Non suo: gli hanno assestato solamente due colpi sulla schiena con l’asta d’un’alabarda.
         “Dà ascolto alle mie invocazioni, o Signore, attendi ai miei pensieri. Perché Tu non sei il Dio che goda dell’iniquità, né con Te dimora il male. I folli non si fermarono alla Tua vista; inorridito da tutti quelli che commettono malvagità.” Prende la brocca e versa acqua nell’altra mano nel tentativo di levarsi la notte dagli occhi. “Mi sono svegliato nel Signore e mi sono alzato con speranza. E, giorno dopo giorno, la mia lingua parlerà della Tua giustizia perché saranno coperti di vergogna e umiliati quelli che mi volevano male.” Con la panica del sai deterge il volto; posa la brocca e poggia una mano sul tavolo per sostenersi: la stanchezza di giorni passati a percorrere rive e calli, e la spossatezza per il digiuno involontario. “La nostra anima sta prostrata nella polvere, e reclinato verso terra il nostro corpo per causa degli insulti e oltraggi di un nemico pieno di rancore. Mi palpita il cuore, mi abbandonano le forze, e mi manca la stessa luce degli occhi.” Curvo sul tavolo, appoggiato con ambo le mani, guarda la scura superficie: ”Sì, io udii il vociare della moltitudine: da ogni parte, il terrore! Moribondi che s’accasciavano sui morti, assassini che inseguivano i vivi. Ei corpi trascinati alla riva e gettati nelle acque che ne allargavano il sangue. Sì, mi girava intorno una muta di cani, mi circondavano bande di malfattori. Di amarezza i miei occhi si ottenebrano, sconfortati per causa di quelli che mi opprimono. Sono corrotti gli uomini, il loro procedere è abominevole, non ce n’è uno che pratichi il bene.”
         Si drizza appoggiandosi sulle braccia, muove la testa fino a vedere il grande Crito crocefisso; lo guarda, inespressivo, ma come ricevendone forza. Stacca le mani dal tavolo, le congiunge; spariscono nelle ampie maniche. Con le braccia conserte comincia a camminare lungo il perimetro del tavolo. “Sono come paglia levata dal vento, come alghe e rami dopo una mareggiata, ma offonderanno e tutte le creature che nel mare si muovono ne faranno strazio. I corpi dei Vostri servitori esposti come pasto agli uccelli, e quello dei Vostri fedeli alle belve della terra; e non c’è nessuno che li seppellisca. I canali sono di sangue intorno alla città, e chi vi affonda è pastura dei pesci. Dei nostri morti rimetti le colpe; la Vostra misericordia venga presto in nostro aiuto perché non continui questo estrema miseria. Seppellire i morti è atto di carità cristiana; fino a quando, Signore, trionferanno gli empi? Fino a quando oltraggeranno con discorsi arroganti e saranno insolenti questi artefici del male?” Abbassa il capo, e la voce: “Sarà che farai miracoli per i morti? Non risorgeranno essi per lodarVi? La Vostra bontà è esaltata nel sepolcro, il mio giaciglio è fra cadaveri, come quello di morti che giacciono nella tomba; e non si dimentichi che siamo polvere. Considera, o Signore, la vergogna imposta ai Vostri fedeli. Il sepolcro sarà il tuo eterno giaciglio, la tua perpetua dimora fino a che Dio ti libererà dall’abitazione dei morti prendendomi con sè.” Rimane alcuni minuti a capo chino nel silenzio della sacrestia illuminata da raggi di sole; silenzio. Nessun rintocco di campana, ed già pieno giorno d’agosto.
         Il frate va alla brocca, ne beve un sorso con difficoltà “già stanco di tanto gridare, mi si arrochì la gola”.
         S’accomoda su una sedia, la schiena eratta, le mani in grembo, gli occhi aperti, quasi spalancati, ma lo sguardo vuoto. “Se non saremo noi a farlo, chi lo farà? Noi! Quanti fratelli son fuggiti? Quanti sono morti? Quanti sono ... come me, dispersi, nascosti, isolati? Non abbiamo potuto salvare nessuno, appena noi stessi. E nemmeno i morti possiamo avvicinare: sto in mezzo a leoni che divorano gli uomini con avidità, tutto viene preso, arraffato.”
         Estrae qualcosa dalla tunica e con la mano chiusa a pugno fa un lento e ampio segno di croce, quindi lascia scivolare la corona del rosario: piccoli grani scuri e una rozza croce in legno che alza tenendola con tre dita. “Angelo Dei, qui custos es mei ...”; la voce si perde; leva la croce alla fronte dopo un Amen sospirato: “Credo ...Non esiste il timore di Dio per gli occhi dell’uomo empio ché l’iniquità sola parla nel suo cuore ed egli si gloria della sua colpa pensando che nessuno la scoprirà né la riproverà. Credo in unum Deum. Patrem omnipotentem, factorem coeli et ...”, la preghiere diviene un bisbiglio; la mano si abbassa: “Pater noster qui es in coelis, ... Fu la morte attorno a noi tutto il giorno ché come pecore da macello furono trattati i fratelli spinti come capre in recinti inseguiti dai malvagi avidi di rapina, ciechi di frontatezza. Fiat voluntas tua, sicut ...” Solo il respiro esce dalle labbra secche dell’uomo: “Dimitte, dimitte, Domine, e noi unite alla Tua gloria perdoneremo gli empi che irridevano il Tuo nome e dileggiavano il Tuo servo che chiedeva di sepellire i morti, di consolare gli afflitti, di assolvere i moribondi. Nessuna pietà, nessuna misericordia: la consegna era uccidere e spogliare il cadavere d’ogni cosa; abbandonata la falce, la Morte ora usa lo sfondagiaco  I bottinieri fin dal vespero erano all’opera censendo il bottino del saccheggio. Ave Maria, gratia plena, ....ora pro nobis ...mortis nostrae. Amen.” Il suono flebile della voce va e viene; il frate allarga il rosario fra le due mani cosicché la corona appare in tutta la sua larghezza: sono noccioli di olive i grani. “Gloria in excelsis D...”, la voce gli si spezza, tossisce, deglutisce, raschia la gola, schiarisce la voce e, il capo alzato, le mani levate reggendo la corona del rosario, la melodia prende corpo, il canto si diffonde, basso e sonoro, nella sacrestia: “... in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae volumtatis... Misere nobis ... miserere nobis...” E l’ Amen in tutta la sua fioritura melica di canto gregoriano gli arrossa le guance magre. “Salve, Regina, mater misericordiae, vita, dulcedo et spes nostra, salve.Pietas erga defunctos: seppellire per amore, inumare affinché il ricordo permanga nella discreta elevazione del tumolo. Bruciare è distruggere, incenerire e dissolvere; ma nell’acqua tutto si perde, scompare ignoto.” Si guarda le mani tese in avanti , i noccioli di oliva gli tracciano due righe brune sulle palme scarne; continua mormorando la preghiera con riprese di voce alta e cali in respiri lunghi: “ ... in hac lacrimarum valle ... O clemens, o pia, o dulcis virgo Maria.
         È ancora silenzio intorno, ma come trattenuto, come un’eco dissolventesi; il fruscio delle ampie maniche della tunica e il sordo tocco dei grani quando il rosario viene posto con una sola con il polpastrello del pollice sora il primo grano della corona: “Per quelli che soffrono, per quelli che ancora soffriranno, per i morti insepolti, per tutti noi, Tuoi figli, Requiem aeterna donas, Domine; et lux ...Exaudi orationem ...Dà forza alla mia lingua di parlare ai potenti, al mio cuore di non temere gli iracondi; fa che si compi il dovere di cristiano nel sepellire i morti.”Lo sguardo è rivolto al Cristo ligneo ch’egli vede nella nebbia dei soui occhi stanchi. “Nel primo mistero doloro si contempla l’agonia di Gesù nell’orto degli ulivi.” Quando tace, i primi rumori della giornata entrano nell’alta stanza, indistinti, lontani, isolati. “E vennero le locuste in quantità enorme, che divorarono tutta l’erba del campo, e i ratti sono saliti fino alle stanze dei palazzi, e l’acqua si mutò in sangue per le carni tagliate degli uccisi, i pesci morenti. Come luce brillerà la Tua giustizia, e comeil sole di mezzogiorno il Tuo diritto. Pater noster, qui es ...”, la vace è meno che un bisbiglio, si alza sgraziatamente aiutandosi con una mano sul poggiolo della sedia. Esce dalla sacrestia; è pieno giorno di agosto, 17.

São Paulo, 21 febbraio 2013.
VG
Nota: La maggior parte del parlare del monaco è tratto dai 150 salmi biblici, poiche al più utilizzo distici sparsi, diventava un acervo di rimandi in nota, per cui ho preferito desistere. Inoltre sono mie traduzioni dal portoghese di due versioni che hanno termini (sinonimi, ma non sempre) differenti venendo dal latino o dall’inglese, e in più i numeri dei versetti non sempre coincidono.